Yoani Sànchez in attesa della primavera
di Gordiano Lupi
Edizioni Anordest, 2013
Edizioni Anordest, 2013
pp
225
12,
90
Per
chi è abituato a vivere in un paese libero senza nemmeno rendersene conto, leggere
“In attesa della primavera”, il libro
che Gordiano Lupi dedica alla blogger cubana Yoani Sànchez, è come prendere un
pugno nello stomaco, un pugno che non si ritira dopo l’affondo, ma rimane
conficcato a darti un sapore di fiele e di bile in bocca. Ma andiamo con
ordine.
Gordiano
Lupi è il traduttore ufficiale di Yoani Sànchez, da anni ne segue il blog e cura
i rapporti con la dissidente attraverso contatti continui. Yoani è una filologa
cubana, che, dopo un passato da piccola castrista qualsiasi, comincia a porsi
delle domande. È giovane, inquieta, intelligente. Cresce in lei il dubbio, il contrasto,
“l’eresia”. Perché è così che il regime castrista di Fidel prima, e di suo
fratello Raùl poi, interpretano il desiderio di libertà di Yoani.
Yoani
è costretta a subire le violenze di un regime affamante e liberticida, di un’autorità
cieca e brutale, e soffre per Cuba, l’isola amata, la patria ferita, dove il dengue è endemico, dove le tessere del
razionamento alimentare non concedono abbastanza calorie per la sussistenza
eppure, una volta abolite, vengono rimpiante. Yoani studia in una “scuola di
campagna”, sorta di lager dove subisce soprusi, fame e pidocchi, s’immerge nelle
lettere per evadere da un presente che non le piace, sogna di viaggiare. Sarà
proprio questo, il desiderio frustrato di viaggiare, ancor più dei due arresti
subiti, a costituire la vera privazione di libertà, la più penosa. Per chi sa
cosa si prova salendo su un aereo con l’emozione nel cuore, questa specie di
arresti insulari sono un tormento.
“Sogno di poter vivere in un’isola dove non si debba più chiedere il permesso per entrare e uscire. Mi illudo che in un prossimo futuro vivrò in un paese normale, che non impedirà un viaggio all’estero per motivi politici. Per il momento posso solo usare Twitter – la mia unica arma – e gridare forte: Internet e libertà di movimento per i cubani!”(pag 79)
Yoani
non capisce perché nella sua nazione “tutto è proibito”: non si può espatriare,
non si possono leggere certi libri o assistere a certi spettacoli, non si può
esprimere liberamente la propria opinione, non si può accedere ad internet, per
molto tempo, addirittura, non si può nemmeno possedere un computer. Il disgusto
la soffoca, l’angoscia la opprime. Vede morire uno dopo l’altro tutti i
dissidenti che entrano in sciopero della fame e non ne escono vivi. La scelta è
spegnersi asfissiata dai divieti oppure ribellarsi. Allora entra in un albergo con
connessione internet e, clandestinamente, scrive il primo post di Generaciòn Y, il blog che - pur oscurato dalle autorità dal 2008 al 2011
– la renderà famosa in tutto il mondo, farà di lei una delle persone più influenti
del pianeta, candidata al Nobel per la pace nel 2012, capace di interloquire
persino con Barack Obama e per questo accusata d’imperialismo dai filo
castristi.
Il
blog, tradotto per La Stampa da Gordiano Lupi, è attivo da cinque anni e, in questo
tempo, la fragile cubana - magrissima, di una bellezza spirituale e quieta - si
trasforma in attivista temeraria, sempre più consapevole di sé, sempre più
simbolo, faro e luce per tutti i cubani e tutti i dissidenti nel mondo, al pari
di Aung San Suu Kyi - ma anche sempre più spaventata, fra oscuramenti,
diffamazioni, arresti, minacce e percosse.
Impaurita
soprattutto perché madre di un ragazzo nei cui occhi legge il medesimo anelito
di libertà, le stesse domande senza risposta di quando lei era piccola. Ama in
suo figlio l’indipendenza di spirito e, insieme, la teme. Ha la nausea ogni
volta che, fin da bambino, lo sa costretto a compromessi, a tacere per convenienza
a quieto vivere, per “non mettersi nei guai”. Non vuole per lui il destino che
è toccato a lei, vuole che Teo cresca in una Cuba emancipata, democratica, dove
chiunque possa manifestare dissenso, dove le elezioni non siano una farsa, dove
la cultura e le conoscenze circolino senza impedimenti, dove sia concesso fare
una valigia e partire alla scoperta del mondo, dove non si debba lavorare la
vigilia di Natale, dove ognuno sia libero di pregare il suo Dio e decidere se accettare
o rifiutare il modello occidentale. Invece Yoani, suo marito Rinaldo e il
figlio Teo, vivono in un paese dove non esistono prigionieri politici ma solo “delinquenti
comuni”: undici milioni di delinquenti comuni, solo perché teste pensanti.
“Non conosco a fondo la libertà”, ci dice - e quanto è struggente questo non comprendere nemmeno ciò che ci manca, nemmeno l’oggetto del desiderio - “ma per me è come una meta, un obiettivo da perseguire. Penso che libertà voglia dire vivere in un paese dove sia possibile fermarsi in un angolo e gridare: Qui non c’è libertà! La libertà è uno spazio dove è possibile ottenere ancor più libertà. La libertà comincia dentro noi stessi, il giorno in cui ti alzi e dici: Non voglio andare avanti così. Non voglio più indossare una maschera. Non voglio permettere che mi rubino ancora spazi di opinione, di libero movimento.” (pag 128)
Yoani
sa che la sua vita è appesa a un filo, sa che, se un giornalista può essere
licenziato, ghettizzato, messo a tacere, è più difficile fermare un blogger
perché la rete ha le sue vie virali e capillari di espansione. Yoani sa che per
fermare un blogger bisogna ucciderlo. La sua garanzia è la visibilità, il
numero dei lettori, il numero dei followers,
il numero dei premi ricevuti. Ecco il
perché per chi la segue e la traduce è diventata quasi un’ossessione. Parlare
di lei al mondo significa, non solo diffondere le sue idee e il suo sogno di
libertà e democrazia, ma anche tenerla in vita, salvarla dalla prigione, dalla macchina
del fango, dall’eliminazione fisica.
Nel
suo blog antigovernativo Yoani dice cose terribili e dure ma le dice con
pacatezza, con gentilezza, senza eccessi, sempre guardando anche l’altro lato
della medaglia, sempre cercando conferma delle voci, dei sospetti. E, quando i filo
castristi la ingiuriano in un aeroporto - il giorno che finalmente le è concesso
espatriare - è felice perché capisce di trovarsi in un posto dove c’è libertà
di espressione.
Vale
per i suoi post quello che lei stessa afferma di Aung San Suu Kyi:
“Nessuno come lei ha potuto descrivere l’orrore con dolcezza, senza che il grido s’impadronisse del suo stile e il rancore le salisse agli occhi.” (pag 85)
I
suoi messaggi sono scritti con uno stile letterario, non parlano solo di
politica e società, ma anche di vita quotidiana. La immaginiamo pallida e
assorta, fra panni stesi e faccende rimandate, rispondere a mail e telefonate,
con, nella stanza accanto, un figlio, dissidente sì, ma pure affamato e in
attesa del pranzo. Riviviamo la sua infanzia, poi la pubertà nella scuola di
campagna, le malattie contratte fra fame e sporcizia, la congiuntivite, il
bisogno di farsi uno shampoo, i capelli
rasati a zero per paura dei parassiti, gli anni dell’università, le lotte al
fianco delle Damas de Blanco, le
proteste in piazza, le notti in prigione (di cui, per pudore, racconta poco, solo
l’umiliazione delle perquisizioni “sotto le gonne”) ma anche il desiderio - lei atea – di vedere un presepe, di festeggiare
il Natale, di fare una valigia anche solo per lasciarla in un angolo, inutilizzata.
Tutto
questo ci fa male dentro, ci ferisce. Leggere Generaciòn Y appassiona e
addolora insieme.
Gordiano
Lupi rende bene lo stile incisivo della Sànchez, più da scrittrice che da
semplice blogger, ed è bravo a riassumere i cinque anni di vita di Generaciòn
Y, rendendoli avvincenti come un romanzo, pur se procedendo a scatti, a balzi
avanti e indietro nel tempo, com’è nello stile dello scrittore, traduttore ed
editore piombinese.
Per
questo ora siamo tutti qui con lei, con Yoani, ad attendere una primavera che
forse tarderà, che sarà pure costellata di sofferenze, di disagi e contrasti, ma, siamo
certi, prima o poi giungerà anche per Cuba.
“La democrazia arriverà ventiquattro ore dopo che tutti noi cubani l’avremo pretesa come un nostro preciso diritto”. (pag 119)
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