di Massimiliano Scuriatti
Bietti editore
130 pp.
15 €
“Curri, Micu, curri”. Così inizia la storia – semplice e delicata – di
un’amicizia tra due ragazzi. Il luogo è la Sicilia, il siracusano per la
precisione, e il tempo è quello della prima guerra mondiale. Una Sicilia
immobile che viene raccontata in prima persona da un personaggio immobile, un
ragazzo disabile che non può camminare.
Incuriositi dalla storia abbiamo deciso di parlarne direttamente con
l’autore: Massimiliano Scuriatti. Originario di Augusta (SR) e residente a
Milano, Scuriatti è sceneggiatore per il teatro, per il cinema e la
televisione. Mico è tornato coi baffi,
pubblicato da Bietti nel 2011, è il suo primo romanzo.
L’abbiamo incontrato al lungomare di Catania, in un soleggiato pomeriggio
di maggio che ci ha riscaldati come se fosse già estate. E, dato che i
siciliani emigrati hanno degli stereotipi da rispettare, abbiamo ordinato
granite e brioches e ci siamo messi a chiacchierare:
Massimiliano parlaci di te,
raccontati ai lettori di CriticaLetteraria.
Ho sempre avuto una forte passione per il teatro che è diventata
lavoro. Mi sono laureato al DAMS di Bologna, fin da allora mi interessava
raccontare storie attraverso il teatro e, allo stesso tempo, capire il teatro
nella sua praticità. Compito difficile a volte, quando si parte da mille input.
Ho lavorato molto col cabaret , poi negli anni duemila sono approdato in
televisione. Ho scritto programmi per reti pubbliche, private e satellitari.
Sono un narratore, e sempre di scrittura mi occupo perché questo sono le
sceneggiature. Mico è tornato coi baffi
l’ho scritto dieci anni fa, anche se è stato pubblicato nel 2011. Sono
incredibilente contento che ci sia già una seconda edizione, e molto soddisfatto del
lavoro della mia casa editrice.
Ora è un momento in cui mi sto spingendo oltre. Sto collaborando a una
commedia cinematografica, ma ho anche altri progetti in mente.
Nel tuo romanzo la
funzione-personaggio è molto importante. Scrivi di un'umanità poco caratterizzata,
addirittura il protagonista-narratore non ha nome. Eppure il mondo che descrivi
è filtrato attraverso lo scarto che c’è tra i due ragazzi. Come hai fatto a
costruirli?
Io lavoro molto coi personaggi . Ho cercato di parlare di grandi temi
universali attraverso le storie di piccoli eroi, gente che torna dalla guerra e
continua a fare la stessa vita di prima. La guerra è l’interruzione delle
speranze, la guerra cambia: dà i baffi a Mico, che torna a casa sapendo come si
spara. Mentre Mico è cambiato, l’amico è rimasto lì dov’era, perché non può
usare le gambe. È un personaggio che non si muove in una Sicilia che non si
muove, ma che in qualche modo si deve muovere per forza, verso la guerra.
La guerra svela differenze già esistenti: i due ragazzi sono antitetici, rappresentano un
contrasto, perché come si suol dire dalle nostre parti “cu avi u pani, nun avi
i denti”. Mico torna coi baffi e torna fidanzato con una ragazza. L’amico,
invece, svolge una funzione più intellettuale: lui sa leggere e può permettersi di cambiare
le sorti dei personaggi, questa è la sua potenza. È un ragazzo che fa
ragionamenti puri e dal suo punto di vista molto profondi. Cresce nel corso
della storia e capisce cosa vuol dire essere eroi . Ma non ha nome perché è un
uomo che non viene visto, è uno storpio qualunque, uno che potremmo vedere ad
ogni semaforo. La povertà è povertà ovunque, ma io ho cercato di vederla con
gli occhi di un siciliano. Ho cercato di motivare dei luoghi comuni come
appunto l’idea della Sicilia che non si muove.
Ci sono anche due figure di
donne, appena tratteggiate ma importanti. Ce ne vuoi parlare?
Il libro parla anche d’amore, e anche in quel caso la vita del ragazzo
è una continua interruzione (mischinu!). Come tutti i ragazzini si innamora, ma
l’immagine delicata della ragazza amata è interrotta dalla vita che uccide.
Poi c’è la figura della mamma del ragazzo, che prende piede sempre di
più. È una mamma siciliana a tutti gli effetti, che protegge suo figlio e che sa
che si deve rialzare da solo. E alla fine il figlio, a modo suo, vuole riunire
la famiglia, immergendosi nel mare come nel liquido amniotico.
Perché hai scelto il contesto
la prima guerra mondiale? Perché non la seconda o un altro periodo storico?
È in occasione della prima guerra mondiale che si pensa ai siciliani
per la prima volta dopo l’unificazione, chiaramente perché servivano i soldati.
È stato naturale incuneare nel romanzo le mie riflessioni su una guerra che non
riguardava affatto i siciliani.
Un’ultima domanda, stilistica.
Come tanti scrittori siciliani che scrivono della nostra terra e si rivolgono a
un pubblico nazionale, hai scritto il romanzo in una sorta di dialetto
italianizzato. Parlaci di questa scelta e della creazione di quell’utile
dizionario che si trova in appendice al romanzo.
Questo micromondo della nostra Sicilia che ho cercato di rappresentare
chiaramente parla in dialetto. Sono tante le diversità dialettali della
Sicilia, e io ho usato la lingua della mia zona. Volevo che il personaggio
parlasse come riusciva a fare. E mi ha fatto piacere sapere che il libro viene
agevolmente letto da tutti. Proprio sul dialetto, in quarta di copertina c’è un
bel pensiero di Manlio Sgalambro di cui mi ha fatto dono, sul difficile
equilibrio tra alto e basso, tra lingua e dialetto, che è “linguaggio della necessità”. Anche il
vocabolario l’ho scritto io, per agevolare il lettore. I rimandi al dialetto e
alla sicilianità sono molteplici e a vari livelli nel libro: ad esempio l’ultimo capitolo si intitola “La
colomba e lo sparviero”, come la filastrocca. E mentre lo scrivevo pensavo alla
versione musicata del testo, quella degli anni Settanta di Carlo Muratori, uno
dei veri diffusori della lingua e della cultura siciliana.
Una sicilianità che si diffonde e si rileva dall’incipit del libro
fino all’ultima parola: “mare”. Un esordio letterario quello di Scuriatti
sicuramente considerevole: l’abile penna di chi inventa storie da una vita
intera è riuscita a descrivere bene intreccio, personaggi e contesto. Scuriatti
riesce a non farcire di ermetismo una storia che si sarebbe prestata bene a
facili e oscure astrazioni (dati i personaggi carichi di simbolicità,
soprattutto la figura del protagonista senza nome), e nello stesso tempo non
appesantisce di inutili dettagli il suo breve racconto (poco più di
cento pagine), lasciando che la storia scorra nella sua semplicità, bella così
com’è. Una semplicità che emerge fin dalla scelta dei titoli dei capitoli, che
in una sola parola riassumono e guidano il lettore nel racconto. Artista
eclettico, Massimiliano Scuriatti è un autore che consigliamo di leggere,
nonché una persona che rallegra con la sua convivialità e simpatia. Lo
salutiamo alla fine di questo pomeriggio, e aspettiamo con vigile curiosità il
suo secondo romanzo e un’altra granita da prendere insieme.
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