Lezioni di letteratura
di Vladimir Nabokov,
a cura di Fredson Bowers,
introduzione di John Updike
Garzanti, Milano 1982 [1980]
Edizione di riferimento: “Gli elefanti” Garzanti, 1992
di Vladimir Nabokov,
a cura di Fredson Bowers,
introduzione di John Updike
Garzanti, Milano 1982 [1980]
Edizione di riferimento: “Gli elefanti” Garzanti, 1992
Le Lezioni
di letteratura di Nabokov, finissimo letterato e autore
dell’indimenticabile Lolita, sono
quelle che egli tenne nelle università americane tra la fine degli anni
Quaranta e l’inizio dei Cinquanta del Novecento cui seguirono quelle sulla
letteratura russa e sul Don Chisciotte
(anch’esse pubblicate da Garzanti rispettivamente nel 1987 e nel 1989). Si
tratta di pubblicazioni postume, non riviste dall’autore e tratte dai minuziosi
appunti preparatori che coscienziosamente redigeva prima di presentarsi ai suoi
studenti. Le circostanze che le hanno originate e la natura postuma della
pubblicazione vanno tenute ben a mente, perché si rischierebbe di leggerle e
giudicarle secondo criteri estranei alle intenzioni dell’autore. Le lezioni non
sono saggi critici, hanno una destinazione determinata (un auditorio di giovani
studenti) e si prefiggono uno scopo preciso: aiutare gli allievi a diventare o
scoprirsi buoni lettori. Cionondimeno non solo qua e là fa capolino il Nabokov
migliore, l’uomo sensibile, intelligente, eccentrico, affascinante, spiritoso e
sorprendente, ma alla fine se ne ricava, soprattutto dalla lezione introduttiva
e da quella finale, un’originale e compiuta idea di letteratura che, seppur non
del tutto convincente, non manca di essere istruttiva e sommamente stimolante.
Insomma se gli specialisti delle singole opere prese in esame non troveranno
memorabili intuizioni interpretative, nel complesso il libro offre al lettore
non specialista di quelle opere una rilettura attenta e più che soddisfacente.
Parlo di opere e non di autori perché l’idea di letteratura di Nabokov
privilegia di gran lunga, se non esclusivamente, l’opera su tutto quanto il
resto gira intorno ad essa, a partire proprio dall’autore.
Dunque il professore d’eccezione
legge per i suoi allievi di allora Mansfiel
Park (Jane Austen), Casa desolata (Charles
Dickens), Madame Bovary (Gustave
Flaubert), Il Dottor Jekill e Mister Hyde
(Robert Louis Stevenson), La strada
di Swann (Marcel Proust), La
metamorfosi (Franz Kafka) e Ulisse
(James Joyce).
Lo
schema didattico adottato è molto simile in tutte le lezioni: una lettura
attenta, con ampie citazioni dirette, alla ricerca di quelle costanti tematiche
e stilistiche che definiscono la peculiare voce dell’autore. A Nabokov non
interessano le grandi idee, o gli “ismi” letterari, storici o filosofici; a lui
interessano i particolari, il rapporto tra la materia narrata e l’autore, il
suo modo specifico di porgerla, la realizzazione nel testo del suo modo di
vedere il mondo. Si tratta di una forma di lettura che si pone dalla parte
dell’autore e che è scarsamente interessata alle ricadute del testo sul lettore
o sulla società. Nabokov non vuol fare un discorso sul testo, cerca, bensì, di fare emergere il discorso del testo. Il punto di partenza è che
«lo stile non è uno strumento, non è un metodo, non è semplicemente una scelta
di parole. È molto di più di tutto questo, e costituisce una caratteristica
intrinseca della personalità di uno scrittore. Quando parliamo di stile,
intendiamo dunque riferirci alla particolare natura di un artista e al modo in
cui essa si esprime nella sua produzione artistica.» Dal viaggio all’interno dell’opera Nabokov e
il suo ascoltatore/lettore tornano con la sensazione d’aver esplorato un mondo
fantastico, perfettamente conchiuso e disseminato di bellezza. E ne riportano
anche, come ricordo indelebile, qualche pepita, sotto forma di geniali
formulazioni sintetiche in cui si riconosce tutto il talento letterario del
nostromo Nabokov. Val la pena di ricordarne qualcuna, a cominciare dalla
definizione ormai entrata nel lessico comune, di “mossa del cavallo”, ossia la
specifica facoltà della letteratura di produrre «uno scarto improvviso in
questa o quella direzione». Poi sullo stile di Jane Austen, l’idea della “frase
a fossetta”, una frase, cioè, che contiene in una parola o nella sua stessa
formulazione, una sorta di strizzatina d’occhio, un surplus di malizia, come un dolce sorriso d’intesa. O ancora, per
Flaubert (o meglio per Madame Bovary),
la definizione del “metodo del contrappunto”, con cui è intessuta la
celeberrima scena dei comizi agricoli, fondata sulla giustapposizione tra la
retorica parata festiva e patriottica e l’altrettanto retorico corteggiamento
di Rodolphe per Emma. Metodo del contrappunto che Joyce porterà al limite
estremo della rappresentazione letteraria e alla sua stessa frantumazione,
tenendo assieme scene diverse in tempi uguali con la tecnica sopraffina della
“sincronizzazione”. Non c’è che dire, come tutti i grandi scrittori, Nabokov è
un gran lettore e un grande insegnante di letteratura. Però…
Però la sua concezione generale
della letteratura, del suo ruolo nell’individuo, nella società, nella storia,
nel pensiero e nello spirito, non convince del tutto e lascia un che di
inconcluso, di speciosamente trascurato. Così per contrastare gli “ismi”, le
generalizzazioni, le ideologie opprimenti, finisce per estremizzare il
carattere autonomo, anarchico, eccezionale del testo letterario; e finisce per
innalzarlo talmente al di sopra della massa da renderlo una specie di grazioso
balocco a disposizione di un manipolo di eletti (i buoni lettori). Nabokov ha
due nemici giurati: il cattivo lettore, quello che mischia al testo letterario
tutta una serie di considerazioni estranee al testo stesso (colui insomma che
legge il testo secondo i suoi comodi esistenziali e ideologici) e il senso
comune, marchio di fabbrica del “filisteo” (Monsieur Homais, per intenderci)
che riduce il mondo ad un bugigattolo in cui succedono solo cose trite, grigie,
comode e prevedibili. Sennonché io credo che il compito dell’artista sia anche
quello di dar conto, rappresentare e coinvolgere il più possibile anche il
cattivo lettore e il filisteo. Chi fa parte di quel manipolo di eletti non può
solo bearsi della sua buona riuscita, ma deve soffrire e spiegarsi il perché
del fallimento di tutti gli altri, deve, cioè, averne “compietà”. La
letteratura è un’arte meravigliosamente spuria e anche la sua più grande
realizzazione, anche le sue opere più celebri non sono racchiuse in un empireo,
ma attraverso la debolezza umana dell’autore, il suo essere determinato anche
da tutta una serie di fattori estranei alla letteratura – famiglia, razza,
società, storia, caso – lo rendono compartecipe della misera vita di tutti. La
letteratura è l’unica arte che si realizza con uno strumento, il linguaggio
della comunicazione ordinaria, che è a disposizioni di tutti e ogni opera, per
quanto cerchi di ricostruire un mondo e un linguaggio nuovo, serba traccia di
questa universalità: un’opera letteraria può, anzi deve, virtualmente tendere
all’assoluto, sapendo però di non poter mai realizzarlo.
Ma Vladimir Nabokov è un grande,
scrittore e lettore, e non posso certo lasciarlo con un rimprovero, perciò non
solo raccomando caldamente la lettura della lezione intitolata L’arte della letteratura e il senso comune
(con le cautele di cui sopra), ma ne voglio citare e commentare brevemente un
brano. «La matematica andò oltre la sua condizione iniziale e divenne, per così
dire, parte naturale di quel mondo al quale era stata soltanto applicata. In
luogo di avere numeri basati su certi fenomeni ai quali casualmente
corrispondevano perché noi stessi corrispondevamo casualmente alla struttura
che imparavamo, il mondo intero finì a poco a poco per essere basato sui numeri
e nessuno, a quanto pare, si sorprese dello strano fatto di una rete esterna
divenuta scheletro interno». Brano che va lodato senza riserve per almeno due
ragioni. La prima perché riprende un’idea geniale del matematico francese
Poincaré per cui la stessa geometria euclidea è il frutto di un processo
evolutivo e non un infrangibile dato oggettivo; la seconda perché fa della
letteratura quel “fuori dalla rete” che è l’unica trascendenza permessa agli
agnostici e che consente di vedere il mondo dall’esterno vivendolo
dall’interno.
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