Poeta
di tamerici e cose povere, di simboli che la natura suggerisce, dei nomi esatti
di cuculi, tortori, rondini e strane piante mediche; cantore di cipressi. Giovanni Pascoli, poeta italiano simbolista
più che decadente, ricorda le prime poesie d’infanzia, imparate a memoria e poi
scordate, a volte mai.
L’opera
pascoliana non ha una precisa corrispondenza cronologica tra vita ed opere,
queste ultime sono raccolte per temi e percorsi. Myricae e Canti di
Castelvecchio si armonizzano in una continuità tematica (uccelli, campane e
camposanti) e in un costante e malcelato leitmotiv: il lutto famigliare.
Scrivere sulla morte per liberarsi dal dolore; catarsi liberatoria-si penserà-
non proprio!
Pascoli
sceglie, decide di fare della tragedia famigliare la sua materia poetica, così
come la pop art sceglie un barattolo.
I
Poemetti raccontano storie, in cui i
personaggi non sono più fantasmi ma soggetti determinati, una straordinaria
forza sensuale s’insinua nella sua
poesia, riesce a raccontare il sesso con la delicatezza dell’analogia( si pensi
a Digitale Purpurea o ad Accestisce), in cui la natura emana
erotismo in terzine di endecasillabi. Quella di Pascoli è realmente una nuova
poesia, non solo per la conosciutissima dichiarazione di poetica che si trova
ne Il fanciullino, ma soprattutto
perché effettua una rivoluzione che passa direttamente dentro il linguaggio, il
poeta fa parlare la natura, le cose, il chiù,
lo scilp, il vitt…videvitt, fino a che l’onomatopea diventa un elemento funzionale della frase. Una poesia
che sperimenta nuove forme linguistiche, nuovi metri( si pensi al novenario
pascoliano), protagonisti assolutamente inusuali, i suoni della natura.
Il
linguaggio pascoliano ha al suo
interno diverse lingue: quella poetica, le lingue speciali, quella dell’emigrante
e quella dello straniero, il cosiddetto linguaggio “fonosimbolico”, il latino nei Carmina. Si passa da un’espressione
evocativa nella raccolta Myricae, alla
narratività nelle successive raccolte, ma tutte sono percosse da una forza
sotterranea, inquietante, paesaggi surreali, come in Nella nebbia, sono attraversati
da presenze indistinte, solitarie, ossimori di bianco e di nero. L’espressione
più acuta del plurilinguismo di Pascoli è rintracciabile nel poema ‘epico’ Italy- Sacro all’Italia raminga; innovazione
tematica e linguistica si fondono per dar vita ad un opera assolutamente
rivoluzionaria.
La
critica si domanda: rivoluzione pascoliana, consapevole o inconsapevole?
Certo,
rivoluzione come movimento che esorbita dalla norma, lo è.
Edizione
di riferimento: Giovanni Pascoli. Tutte
le poesie, a cura di Colasanti A.
Calzolaio N., Newton Compton, 2008.
Selezione
dei testi e introduzione a cura di Isabella Corrado.
Da Il Fanciullino
(apparso in parte sul «Marzocco» nel 1897 e poi pubblicato nel 1903 in Miei pensieri di varia umanità)
CAPITOLO
XX
Bene! Dunque riassumo, come uomo serio che sono. La poesia, per ciò stesso che è poesia, senz'essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società. Il poeta non deve avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di gloriola o di gloria) che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo. I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l'amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome. Ché i nomi che essi dicono e vantano, sono, sempre o quasi sempre, d'epigoni, d'ingegnosi ripetitori, di ripulitori eleganti, quando non siano nomi senza soggetto. Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s'inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto.Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle richiamare sopra sé l'attenzione e l'ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia. E fu male. E il male ingrossa sempre più. I poeti dei nostri tempi sembrano cercare, invece delle gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che è la loro persona. Non codesta quei primi. E tu, o fanciullo, vorresti fare quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n'ebbero; compenso che tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi
È così?Sì.
Da Myricae (1891)
L'assiuolo
Dov'era la luna? ché il cielonotava in un'alba di perla,ed ergersi il mandorlo e il meloparevano a meglio vederla.Venivano soffi di lampida un nero di nubi laggiù;veniva una voce dai campi:chiù . . .Le stelle lucevano raretra mezzo alla nebbia di latte:sentivo il cullare del mare,sentivo un fru fru tra le fratte;sentivo nel cuore un sussulto,com'eco d'un grido che fu.Sonava lontano il singulto:chiù . . .Su tutte le lucide vettetremava un sospiro di vento:squassavano le cavallettefinissimi sistri d'argento(tintinni a invisibili porteche forse non s'aprono più? . . .);e c'era quel pianto di morte. . .
chiù . . .
Novembre
Gemmea l'aria, il sole così chiaroche tu ricerchi gli albicocchi in fiore,e del prunalbo l'odorino amarosenti nel cuoreMa secco è il pruno, e le stecchite piantedi nere trame segnano il sereno,e vuoto il cielo, e cavo al piè sonantesembra il terreno.Silenzio, intorno: solo, alle ventate,odi lontano, da giardini ed orti,di foglie un cader fragile. È l'estate,fredda, dei morti.
Da Primi Poemetti
(1904)
Nella nebbia
E guardai nella valle: era sparitotutto! sommerso! Era un gran mare piano,grigio, senz'onde, senza lidi, unito.E c'era appena, qua e là, lo stranovocìo di gridi piccoli e selvaggi:uccelli spersi per quel mondo vano.E alto, in cielo, scheletri di faggi,come sospesi, e sogni di rovinee di silenzïosi eremitaggi.Ed un cane uggiolava senza fine,né seppi donde, forse a certe pésteche sentii, né lontane né vicine;eco di péste né tarde né preste,alterne, eterne. E io laggiù guardai:nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.Chiesero i sogni di rovine: - Mainon giungerà? - Gli scheletri di piantechiesero: - E tu chi sei, che sempre vai? -Io, forse, un'ombra vidi, un'ombra errantecon sopra il capo un largo fascio. Vidi,e più non vidi, nello stesso istante.Sentii soltanto gl'inquïeti gridid'uccelli spersi, l'uggiolar del cane,e, per il mar senz'onde e senza lidi,
le péste né vicine né lontane.
Digitale Purpurea
«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»dice tra sé, poi volta la parolagrave a Maria, ma i neri occhi no: «Io,»mormora, «sì: sentii quel fiore. Solaero con le cetonie verdi. Il ventoportava odor di rose e di viole aciocche. Nel cuore, il languido fermentod'un sogno che notturno arse e che s'eraall'alba, nell'ignara anima, spento.Maria, ricordo quella grave sera.L'aria soffiava luce di balenisilenzïosi. M'inoltrai leggiera,cauta, su per i molli terrapienierbosi. I piedi mi tenea la foltaerba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!tanta, che, vedi... (l'altra lo stuporealza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido...) si muore!»
ITALY - Sacro all' Italia raminga
"Canto primo "
VOh! no: non c'era lì né pie né flavourné tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»Oh! no: starebbe in Italy sin tantoch'ella guarisse: one month or two, poor Molly!E Ioe godrebbe questo po' di scianto!Mugliava il vento che scendea dai collibianchi di neve. Ella mangiò, poi mutafissò la fiamma con gli occhioni molli.Venne, sapendo della lor venuta,gente, e qualcosa rispondeva a tuttiIoe, grave: «Oh yes, è fiero... vi saluta...molti bisini, oh yes... No, tiene un frutti-stendo... Oh yes, vende checche, candi, scrima...Conta moneta: può campar coi frutti...Il baschetto non rende come prima...Yes, un salone, che ci ha tanti bordi...Yes, l'ho rivisto nel pigliar la stima...»Il tramontano discendea con sordibrontoli. Ognuno si godeva i cariricordi, cari ma perché ricordi:quando sbarcati dagli ignoti mariscorrean le terre ignote con un gridostraniero in bocca, a guadagnar danariper farsi un campo, per rifarsi un nido...
Da Canti di
Castelvecchio(1903)
La tessitrice
Mi son seduto su la panchetta
come una volta... quanti anni fa?
Ella, come una volta, s'è stretta
su la panchetta.
E non il suono d'una parola;
solo un sorriso tutto pietà.
La bianca mano lascia la spola.
Piango, e le dico: Come ho potuto,
dolce mio bene, partir da te?
Piange, e mi dice d'un cenno muto:
Come hai potuto?
Con un sospiro quindi la cassa
tira del muto pettine a sé.
Muta la spola passa e ripassa.
Piango, e le chiedo: Perché non suona
dunque l'arguto pettine più?
Ella mi fissa timida e buona:
Perché non suona?
E piange, e piange - Mio dolce amore,
non t'hanno detto? non lo sai tu?
Io non son viva che nel tuo cuore.
Morta! Sì, morta! Se tesso, tesso
per te soltanto; come, non so;
in questa tela, sotto il cipresso,
accanto alfine ti dormirò. –
Il bolide
[…]E la Terra sentii nell'Universo.
Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella.
E mi vidi quaggiù piccolo e sperso
errare, tra le stelle, in una stella.