di Sandro Veronesi
Fandango, 1990
pp. 308
Volevo andare a vedere il film e
mi sono ritrovato il libro fra le mani. Meglio, direi. Perché le pagine mi
hanno suggerito un pizzico di sana depravazione. Mi ha affascinato indagare la schiumevolezza
di cui parla Veronesi, che non è cosa da poco. Il protagonista, un
giovane grafologo di nome Mete, s’intestardisce su questo concetto che la sua
passione prima fa emergere poi gli fa sviscerare. Già la grafologia non è
scienza per tutti, è depositato su di essa il manto occulto di certe scienze
che tuttavia non scoraggia Mete. Nella Praga del Seicento gli orafi stavano con
i loro alambicchi a mescolare, separare, ricomporre materiali e a distillarne
il prezioso metallo. Gli alambicchi di Mete sono mentali ma il lavoro è
ugualmente paziente: miscela significati e fonemi per giungere alla
consacrazione universale dei segni.
Se vi state chiedendo cosa sia la
schiumevolezza potrei rispondere di
leggere il libro. Anzi già lo faccio, altrimenti non scriverei queste righe:
comunque non è superficialità, leggerezza, svagatezza. È un atteggiamento verso
il mondo che consente di adeguarsi all’eterno contingente senza mai dargli
forma, sfiorandolo appunto. Non c’è
niente di irrevocabile nella schiumevolezza
ma anch’essa può essere dispettosa perché in mezzo a milioni di istanti
fuggevoli ce ne può essere uno di particolarmente accattivante che se afferrato
dà la svolta a tutto. Anche a una vita. E Mete si troverà nel romanzo ad
allontanare quell’istante che rischia di cambiarlo per sempre.
Dunque, abbiamo un ventenne
dedito alla grafologia che si divide tra lo studio e le serate nei locali di
Roma. Ha perso la madre da soli sei mesi quando il padre decide di risposarsi
con una donna dalla quale ha avuto un’altra figlia: Belinda. Non proprio una
secchiona, fuma qualche canna, dice di essere stata colpita dal malocchio
insieme al ragazzo che frequenta, Dinamo, uno col sogno di formare una rock
band e che coltiva cannabis sulla tomba di un musicista. Il problema sorge quando Belinda viene affidata al fratellastro che
fa di tutto per evitarla. Il motivo? Semplice, Mete è tremendamente attratto da
lei. Sa che se passassero troppo tempo assieme sarebbe capace di fare qualcosa
di cui si pentirebbe amaramente.
E allora Mete esce, vaga per
Roma. Ha un paio di amici: Bruno, attore teatrale che pubblica il Manifesto per
l’abolizione del Teatro, e Damiano che sogna di comprarsi un’Alfa Romeo 164
rossa fiammante. Tutti insieme, seppur con le loro passioni, restano fragili,
spensierati eppure guastati da paure, in un’atmosfera che Veronesi regala con
originalità. Perché qui c’è una Roma afosa e indifferente, che lascia spazio
solo a gesti velleitari, regolarmente ignorati, se non travisati, dai mass
media. Inutili. Una Roma che solo dieci anni prima veniva devastata da
terrorismo e bande criminali. Ma grandi vecchi e affari riservati sono roba per
De Cataldo. Ora, si può fare tutto alla luce del sole, tanto resta poco da offrire: serate “da bere”,
tipiche degli anni Ottanta, governate dai Carontini, i ragazzi, soli, che
traghettano altri ragazzi da un locale all’altro. Resta bellissimo questo
termine coniato dallo slang,
Carontino, ma ci porta dritti al degrado della schiumevolezza, al tempo storico messo fuoco dal libro e al suo
tratto saliente: un decennio famigerato nutritosi di quell’indolente disimpegno
che chissà ancora per quanto attanaglierà questo paese.
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