Cosa
c’entra Gordiano Lupi, editore-scrittore piombinese, con Leopardi? Nulla,
appunto. Se non fosse che la sottoscritta è in vacanza a Recanati e si è portata
dietro una trilogia del suddetto Lupi (per altro un po’ datata ma ancora
attuale) che parla di mondo editoriale e letteratura contemporanea e, qui sul
colle dell’infinito, se l’è letta tutta.
La
trilogia in questione è costituita da “Quasi
quasi faccio anch’io un corso di scrittura” (Stampa Alternativa 2003), “Nemici miei” (Stampa Alternativa, 2005 )
“Velina o calciatore, altro che scrittore”
(Historica 2010). L’argomento è il mondo della scrittura e tutto
ciò che vi ruota intorno, più per sciacallaggio che per condivisione. Si parla
di editoria grande e piccola, di riviste letterarie cartacee e on line, di
recensioni-marchette, di poteri forti che tutto ottengono a scapito della
qualità, di autori incensati perché fa comodo gridare al fenomeno letterario,
di scuole di scrittura creativa dove non s’insegna a scrivere ma a piegarsi al
gusto del pubblico di bocca buona, e via discorrendo.
Il
tono è acido e avvelenato, fa pensare a un trabocco di bile - “se non lo dico sto male”, afferma l’autore, ed io ci credo. Certe valutazioni su alcuni scrittori non mi trovano d’accordo
né nella sostanza né nei toni, tuttavia il fondo di verità è innegabile. Ma esso
non costituisce, secondo me, l’interesse precipuo della trilogia, né il motivo
per cui ne sto parlando qui sull’ermo colle, fra interminati spazi e sovrumani
silenzi. Che il mondo editoriale non sia trasparente, che i pesci piccoli siano
divorati dai grandi, che i bravi, se non famosi per altri motivi,
non abbiano nessuna possibilità di farsi pubblicare e conoscere, che alcuni scrittori producano cavolate ma
vendano milioni di copie grazie al battage
pubblicitario, che i casi letterari siano montati a tavolino, che i libri vengano
direttamente commissionati dagli editori a personaggi di spicco e poi fatti
scrivere dai ghost writers, ormai lo
sappiamo tutti e chi non lo sa vuol dire che non ha la minima dimestichezza con
questa realtà e vive ancora, beato lui, nel mondo dei sogni.
Ciò
che ci colpisce, a dire il vero, nella trilogia di Lupi, è la sincerità dolorosa e
crudele con cui grida il suo sfogo fino a farsi del male, fino a mostrarsi per
quello che è senza cercare di imbellirsi nemmeno un poco – e in questo somiglia
molto a chi vi parla – è l’innocenza del bambino che fa gridare: “Il re è nudo”.
Sì,
perché, certe volte, il re è davvero nudo. E con questo non voglio riferirmi
solo alle varie sfumature di grigio o ai metri sopra il cielo – ché, via, tutti
sappiamo che non è arte, quella, ma la leggiamo lo stesso - piuttosto alla cosiddetta letteratura
italiana contemporanea.
Non
voglio nemmeno parlare degli scrittori e delle scrittrici che pubblicano con stampatori
a pagamento libri che nessuno ha riletto nemmeno una volta, stupidi di
contenuto e sgrammaticati nella forma, infarciti di errori d’ortografia e
sintassi. Una volta smascherati dai lettori– questi scrittori e queste
scrittrici che si pavoneggiano alla sagra del caciocavallo, accanto all’assessore
alla cultura che di culturale non ha nemmeno l’odore dei piedi - sono capaci
addirittura di incolpare l’editor – se mai ne esistesse uno – di aver inserito gli
errori nel testo a bella posta per screditarli. No, voglio parlare piuttosto della
letteratura blasonata, quella che viene presentata sui quotidiani e in
televisione, che fa bella mostra di sé sugli scaffali degli autogrill e degli
uffici postali. In questo, l’autore della trilogia mi trova in sintonia, anche
se non su tutti i nomi che cita, visto che lui farebbe tabula rasa mentre
io salvo parecchio e sono più indulgente. Non credo che tali opere facciano tutte schifo, no. Però al pari di esse ce ne sono molte altre, magari addirittura più
meritevoli, che su quegli scaffali non
compariranno mai perché dimenticate nel cassetto di qualche editor incapace di
rispondere alle mail, perché incappate nel tritatutto scorciatoia della vanity press maldistribuita o, magari, perché ammuffite
nella vetrina on line di qualche piattaforma di autopubblicazione.
Più che scrittori sopravvalutati, noi abbiamo, direi, storie sopravvalutate, ché lo stile magari c'è, anche raffinato, ma non basta a fare il capolavoro. Avete presente, ad esempio, la macchina impressionante dei libri di Ian Pears, il perfetto congegno ad orologeria? C'è qualcuno qui da noi che possa eguagliarla? O la capacità narrativa di Rohinton Mistri? E il minimalismo, sì, ma quello di Anita Desai, non quello delle due parole con il punto a capo. E John Updike quello vero, non chi gli fa il verso americanizzandosi e fingendosi arrabbiato. È
evidente, a mio avviso, l’esilità di certi testi nostrali spacciati per opere d'arte, destinati invece a essere dimenticati nel giro di mezza generazione. Non
faccio nomi perché non mi piace offendere, il mio giudizio è soggettivo e i
nemici non mi servono. Però, quelle poche volte che mi lascio convincere a
leggere un romanzo italiano contemporaneo, magari uno che è arrivato in finale
al Campiello, allo Strega etc etc, mi scontro quasi sempre con la mancanza di
sforzo, di spessore, d’impegno narrativo, persino di carta. È tutto gradevole,
per carità, leggibile ma sottile, intimista, trito: fratelli e sorelle con
qualche scontato problema d’infanzia, storie partigiane, fascismi e poco altro.
Recensendo
testi, poi, m’imbatto in autobiografie, fatti di famiglia, gialli senza capo né
coda e tanto tanto sesso volgarotto. Oppure, peggio, nella rivisitazione post mortem di avanguardie surreali di
primo novecento, in deliranti manifesti destrutturalisti, in simboli spacciati
per sublimazione dell’intelligenza, a scapito del contenuto, della razionalità,
dell’emozione. A scapito del raccontare una storia interessante, avvincente.
Questa
dell’essere avvincenti quando si scrive è una mia fissazione: la noia per me
non è mai un valore. Cos’è il piacere della lettura se non curiosità, desiderio
di sapere che accade nella pagina successiva? Cos’ altro si può inculcare in
un bambino, se non la gioia di raggomitolarsi con un libro sulle ginocchia fino
a che non gli bruciano gli occhi leggendo avventure, magie, mondi
sconosciuti? So di ragazzini obbligati a sorbirsi “La Certosa di Parma “ di Stendhal che hanno avuto un rifiuto a vita
per tutto ciò che somigliasse anche da lontano a un libro.
A
costo di sembrare esterofila (e lo sono) dico che i libri vado a comprarmeli
nella sezione “narrativa in lingua originale”, di solito anglofona, perché qui da noi - con le dovute eccezioni è ovvio - vedo solo
storie brevi e magre, costruite sul niente, chiuse in un microcosmo di tempo e
spazio, senza studio, profondità di sentire o impalcatura narrativa, senza sviluppo,
senza trama e spesso noiose. Oppure parole in libertà scritte una accanto all’altra
solo perché suonano bene, senza rispetto per la magica armonia di forma e
contenuto che, a mio avviso, sta alla base di ogni opera d’arte.
A
queste considerazioni che mi sorgono qui mentre mi sovvien l’eterno e le morte
stagioni, devo aggiungere che Lupi è uno dei pochi che ha il coraggio di dire
pane al pane e rivendicare il diritto sacrosanto a non essere intellettuali –
anche quando si bazzicano libri e mondo editoriale - e a leggere cosa ci piace,
pure le stupidaggini, ma considerandole per quello che sono, cioè evasione e
non arte. Io, infatti, leggo cosa cavolo mi pare, non devo per forza conoscere
tutti gli ultimi premiati e gli “stregatti” vari, non devo per forza dire che ho capito tutto se non ho capito nulla, per paura di apparire ignorante. Forse, se non ho capito, è anche perché l'autore non si è spiegato bene. E se un libro non mi prende,
non mi dice niente, mi tedia, lo mollo, lo abbandono, anche se è considerato “cerebrale,
simbolico e profondo”, anche se dietro ci sono “motivazioni filosofiche e psicanalitiche”. Se è una pizza è una pizza, e qualcuno lo deve pur dire, qualcuno deve dichiarare la nudità del re. E questo, aggiungo, vale anche per i mostri sacri, cosicché qui e ora, una
volta e per tutte, confesso di non essere mai riuscita a finire alcuni romanzi di
Tolstoj, di Hesse, di Conrad, di Proust (e di Stendhal!) con buona pace degli appassionati che
mi toglieranno il saluto e di coloro che mi daranno dell'ignorante. Un libro mi piace se ha una motivazione di fondo, una
trama ben costruita, un’atmosfera originale, uno stile non banale, e se emoziona, fa riflettere, vivere un’altra vita. Quando la
confezione è buona, qualsiasi contenuto acquista sapore.
E
Lupi ha ragione quando parla di fenomeni gonfiati. Ho visto casi letterari ingrossati
a tavolino sfruttando l’amicizia fra giornalisti ed editori, inventando finti
passaparola della rete, ho visto l’eclatante caso del falso romanzo di successo
(mai scritto e mai esistito) che tutti i personaggi famosi intervistati fingevano di avere letto,
apprezzato e persino recensito. Ho visto cose che voi umani.
Ora qui, affacciata alla finestra della meravigliosa biblioteca di Monaldo, con lo sguardo che spazia sui campi e sulla
piazzetta del sabato del villaggio, immagino Giacomo alzare gli occhi
affaticati e cercare con lo sguardo Teresa
Fattorini.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate
carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la
miglior parte,
d’in su i veroni del
paterno ostello
porgea gli orecchi al suon
della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa
tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e
quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno
Ecco,
se ci fosse bisogno di spiegazioni per capire che cos’è arte, letteratura e
poesia vera basterebbero questi versi, basterebbero i rintocchi della Torre del
Borgo, o il passero solitario annidato fra le merlature. Basterebbero perché l’arte
non si spiega e non si definisce, non s’inquadra e non ha canoni fissi. E perché
il poeta, come sta dicendo la gentile guida che mi accompagna a visitare la
casa di Giacomo, “è colui che è
emotivamente coinvolto in ciò che vede”. Non sa la gentile guida che questa
frase mi sta scendendo dentro l’anima e mi rimane incisa nel cuore con la sua
lapidaria, ineluttabile, verità. Leggete, dice Lupi, leggete quello che vi
piace e non buttate i soldi nei corsi di scrittura creativa, leggete i
classici. Leggete Leopardi, aggiungo io, che fa sempre bene.
Ed
è forse per questo se il terzo libro della trilogia di Lupi– che con il sommo
poeta, specifichiamo ancora, ci combina come il cavolo a merenda – ha uno stile
diverso dagli altri due, permette al tessuto dell’invettiva pura e velenosa di lacerarsi
per lasciare il posto alla nostalgia, al rimpianto, al vero nucleo della tematica
dello scrittore/editore piombinese.
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