di Zadie Smith
Mondadori, 2000
Quando nel 2000 “Denti bianchi” è stato pubblicato in lingua inglese Zadie Smith aveva appena 25 anni e l’attesa intorno a quel primissimo romanzo era già fortissima ancor prima che del libro fosse pronto anche solo un capitolo. Il suo agente letterario e un editore ne avevano con grande lungimiranza –e un poco di imprudenza nell’azzardo- intravisto il grande potenziale e la Smith, all’epoca studentessa del King’s College di Cambridge, non ha tradito le aspettative imponendosi nel giro di pochi anni come una delle più interessanti giovani voci del panorama letterario e intellettuale contemporaneo. Oggi, mentre con il marito si divide tra Londra e New York dopo aver per un anno vissuto anche nel nostro paese, la sua voce acuta e vivace riempie pagine di autorevoli giornali spaziando sempre dalla fiction alla saggistica, con sguardo attento alla realtà culturale che la circonda.
Ma tutto il mondo di Zadie Smith è in qualche misura racchiuso in questo primo romanzo che accoglie molti dei temi che saranno da lei ampiamente approfonditi, analizzati e guardati da diverse prospettive e innumerevoli declinazioni sempre nuove nei libri a seguire, romanzi e saggi.
Punto di partenza di un romanzo ricchissimo di tematiche è quella Londra multiculturale che si va delineando dagli anni ’70 in poi, crogiolo di culture e tradizioni diverse che inevitabilmente si interrogano e spesso si scontrano alla ricerca di una propria identità, di un proprio posto, sfidando diffidenza, povertà e incapacità di comprendersi. Ed è il luogo ideale nel quale calare le vicende di due famiglie, gli inglesi Jones e i bengalesi Iqbal, uniti dall’improbabile eppure solidissima amicizia tra Archie e Samad conosciutisi durante la Guerra:“Discutevano su idee che Archie non capiva a pieno, e nelle fresche serata Samad rivelò segreti che non erano mai stati raccontati ad alta voce. Fra loro passavano lunghi silenzi confortevoli, simili a quelli delle donne che si conoscono da anni. Guardavano le stelle che illuminavano un paese sconosciuto, ma nessuno dei due si aggrappava in particolar modo al ricordo di casa. In breve, era esattamente il tipo di amicizia che un inglese stringe durante una vacanza. Un’amicizia che supera le classi e il colore della pelle, un’amicizia che ha come base la vicinanza fisica e sopravvive perché l’inglese presume che quella vicinanza fisica non durerà”.
Amicizia portata avanti nel tempo quando entrambi si ritrovano in quella Londra multiculturale a vivere matrimoni difficili e stravaganti, con donne molto più giovani di loro e rapporti estremamente complicati con i propri figli, i gemelli Millat e Magid per Samad e la moglie Alsana, l’insicura Irie per Archie e Clara. Ben lontana dalla Londra turistica e facilmente riconoscibile, di musei, pub alla moda, mercatini vintage e quartieri dalle case colorate viste in qualche film, è una città di periferia dove le tradizioni si sentono oppresse dalla decadenza occidentale e si sforzano di sopravvivere lottando ogni giorno contro sospetto e senso di estraneità, un malessere vissuto in modo ancora più radicale dai giovani intrappolati tra Oriente ed Occidente, incapaci di scendere a compromessi e trovare il proprio posto in una società che non li accetta:
“Sapeva che lui, Millat, era un pakistano, da qualunque parte venisse; sapeva di puzzare di curry; di non avere un’identità sessuale; di rubare il lavoro agli altri; o di non avere lavoro e di vivere con i quattrini dello stato; o di dare tutti i lavori ai propri parenti; di poter fare il dentista o il proprietario di negozio o il commerciante di curry, ma non il calciatore o il regista cinematografico; sapeva di dover tornare al suo paese; o restare là a guadagnarsi la fottuta pagnotta; di adorare gli elefanti e portare il turbante; sapeva che nessuno che assomigliasse a Millat, o parlasse come Millat, o sentisse come Millat, arrivava mai a fare notizia, a meno che non fosse stato assassinato di recente. In breve, aveva saputo di non avere una faccia, in quel paese, una voce nel paese, fino a due settimane prima, quando la gente come Millat era comparsa in tutte le stazioni televisive e radiofoniche e su tutti i giornali, ed era arrabbiata, e Millat aveva riconosciuto la rabbia, aveva pensato che la rabbia riconoscesse lui, e l’aveva afferrata con le due mani”.
È un conflitto culturale che inevitabilmente conduce allo scontro con le proprie famiglie, con quei valori cui sono così tenacemente ancorati, talvolta scegliendo strade in assoluto contrasto, altre estremizzando gli insegnamenti ricevuti, in un percorso comunque fatto di incertezze, crisi adolescenziali, scoperta del sesso e delle droghe, fino a compiere scelte dalle quali non vi è ritorno:
“ Non c’è niente da dire. Quello che ho rimandato a casa diventa un inglese pukka, uno stupido avvocato con la parrucca e vestito di bianco. Quello che ho tenuto qui è un terrorista fondamentalista convinto, con il farfallino verde. […] In questi giorni ho la sensazione che quando si entra in questo paese si fa un patto con il diavolo. Si consegna il passaporto, si riceve un timbro, si vuole guadagnare qualcosa, si comincia... ma allo stesso tempo di vuole tornare indietro! E chi vorrebbe mai restare? Freddo, umido, miseria; cibo orribile, giornali spaventosi… e chi vorrebbe mai restare? In un posto dove non si è mai benaccetti, ma solo tollerati. Appena tollerati.[…] Ma si è stretto un patto con il diavolo… ti trascina dentro e all’improvviso non sei più adatto al ritorno, i tuoi figli diventano irriconoscibili, non appartieni più a nessun posto”.
Nell’amarezza di Samad tutta la delusione di ogni immigrante del mondo che per motivi razziali, politici o economici è visto con sospetto e mai del tutto accettato, ma anche l’incapacità di comprendere i propri figli e le scelte che fanno.
Altro tema portante del romanzo è infatti il rapporto tra genitori e figli, lo scontro generazionale e culturale che pare inevitabile e che si consuma nella ribellione contro quanto è stato imposto e ossessivamente inculcato, contro i silenzi, gli stupidi segreti inspiegabilmente custoditi, la mancanza di empatia. Un universo in cui l’amicizia, tra Samad ed Archie in primis, tra Millat ed Irie, tra Alsana e Clara in qualche modo, è l’unica certezza, eppure essa stessa simbolo più evidente delle differenze che tutti legano.
“Oh che tela complicata tessiamo. Millat aveva ragione: i loro genitori erano persone danneggiate. Senza una mano, senza denti. I loro genitori erano pieni di informazioni che i figli volevano conoscere ma avevano paura di ascoltare”.
Ma lo scontro più profondo senza dubbio coinvolge tradizioni e la religione, quest’ultima spesso vissuta ai suoi estremi: dall’agnosticismo determinato di Archie, al fondamentalismo di uno dei gemelli Iqbal, fino al totale empirismo di Marcus Chalfen, capofamiglia del nuovo gruppo medio borghese che intreccia la propria vita e la propria visione con quella di Jones e Iqbal, stravolgendole ancora più profondamente.
“Se la religione è l’oppio dei popoli, la tradizione è un analgesico ancora più sinistro, semplicemente perché di rado appare sinistro. Se la religione è un laccio fasciato stretto, una vena pulsante e un ago, la tradizione è una misura assai più casalinga: semi di papavero macinati nel tè; una dolce bevanda al cioccolato spruzzata di cocaina […].
Un romanzo sorprendentemente maturo, sempre attuale, a tratti tragicomico, che rivela già pienamente il talento incredibile di una delle scrittrici più interessanti dell’ultimo decennio.