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Il Salotto - Alfonso Berardinelli: l'epifania del critico

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Abbiamo l’onore di ospitare uno dei più grandi intellettuali e critici in attività nel nostro Paese: Alfonso Berardinelli. Polemista e raffinato lettore, la sua attività si è sempre contraddistinta per le analisi sulla contemporaneità, dall’avventura quasi decennale di «Diario» fino ai suoi articoli su «Il Foglio» e su «Avvenire», passando per bellissime opere come L’eroe che pensa e La forma del saggio, quest’ultimo pietra miliare della teoria saggistica. Per molti critici più giovani Berardinelli rappresenta una sorta di mito di coerenza e sincerismo, un difensore della modernità come umanità e qualità. Grazie al Master di Scrittura creativa ed Editoria dell’Università di Sassari, ho potuto assistere a dieci ore di sue lezioni: una cultura profonda si amalgamava all’esistenza vissuta, la letteratura non rimaneva mai inerme strumento di narcisismo, ma pietra polemica di confronto per le scelte quotidiane. Un’esperienza la mia davvero arricchente e gratificante, soprattutto perché giunta dopo molte letture appassionate dei suoi articoli e volumi, tanto da chiedere al critico se volesse rispondere ad alcune domande per un’intervista al blog. Devo dare ancora ragione a Berardinelli quando scrive: «Qualunque cosa se ne ricavi, le inchieste e le interviste sono comunque interessanti. Per quanto reticenti possano essere, gli intervistati in qualche misura si rivelano» (Domenica del Sole 24 Ore, 2 giugno 2013, p. 27). A voi lettori il giudizio di questa epifania critica.

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Lei è autore di un’opera dal titolo piuttosto esplicito Non incoraggiate il romanzo e di un saggio molto polemico sulla poesia come Poesia non poesia. Da dove deriva la fragilità di questi generi nella contemporaneità italiana?
E’ una fragilità che deriva dalla quantità. Tutto viene scritto troppo velocemente. Manzoni pubblicò un romanzo, Svevo tre, Morante quattro. Oggi i narratori ne pubblicano uno ogni anno o due e sei mesi dopo quasi nessuno se ne ricorda. Quasi sempre, del romanzo hanno solo il nome.
La poesia sta ancora peggio, perché ormai da decenni è diventata un’arte senza pubblico. La sua tecnica si è molto deteriorata. Ci sono dieci o forse venti buoni poeti in circolazione, gli altri cinquecento non si saprebbe dire perché scrivono. Forse hanno sbagliato genere letterario. Se ci dicessero in breve chi sono, è possibile che una quarantina di pagine interessanti verrebbero fuori. In versi risultano incomprensibili o banali.

In Leggere è un rischio dice che il critico dovrebbe riconoscere la bellezza anche oltre il suo gusto personale: non crede di contraddirsi, cadendo in conflitto d’interessi, quando fustiga e ridimensiona la lirica e la narrativa non facendo lo stesso con il suo genere d’elezione, la saggistica?
Non vedo il conflitto. Ognuno crede nel genere letterario che ha scelto. Ho richiamato l’attenzione sulla saggistica contro il pregiudizio secondo cui è “creativo” solo il narratore e il poeta. Anche la saggistica è letteratura. Di solito parla di qualcosa di preciso e così, anche se manca l’eccellenza, il lettore qualcosa la impara. Da un romanzo mediocre e da una poesia priva di forma non si impara niente.

Lei ha vissuto gli anni della neo-avanguardia, delle teorie letterarie e del loro crollo. Crede che “il demone della teoria” sia stato davvero esorcizzato? Non crede che quelle teorie abbiano partorito il contemporaneo panorama culturale e quindi, in fondo, abbiano vinto?
Nessuno oggi fa più teoria. Non è più di moda e manca anche la capacità. La sovrapproduzione letteraria di oggi non è figlia della teoria, nasce piuttosto dalla scarsa riflessione. Non abbiamo più a che fare con i difetti di trenta o quarant’anni fa, quando i testi letterari erano l’applicazione di qualche idea o teoria. Oggi gli scrittori intellettuali sono rari e quei pochi non si dedicano alla teoria della letteratura ma ad altri saperi.

In ABC del mondo contemporaneo le parole immaginazione, attenzione e memoria ritornano spesso e in diversi campi. Cosa significano per lei? Perché sono così importanti?
Il valore di immaginazione, attenzione, memoria dovrebbe essere evidente, non le pare? Chi può farne a meno?

Kierkegaard e Simone Weil, due suoi autori modello, sono entrambi animati da una profonda tensione verso la ricerca dell’assoluto: che rapporto ha con la dimensione dell’anima?
Apprezzo Kierkegaard e Simone Weil per il loro valore critico e politico (o antipolitico). Dell’assoluto non so niente di più di quello che dice la parola e non sono sicuro che l’anima esista. Ma diventa chiaro che cos’è quando si incontra chi non ce l’ha, o l’ha venduta. E questo succede spesso.

Lei ha avuto un rapporto piuttosto tormentato con l’Accademia italiana, che ha, con coerenza, abbandonato: quale sarebbe la prima riforma che farebbe? Secondo lei può un’istituzione rimanere fedele ai suoi ideali di divulgazione culturale e non cedere alla burocrazia e ai giochi di potere? E come?
Non era un rapporto tormentato. Convivo sempre male con le istituzioni, di qualunque tipo. Non mi sento libero dove c’è odore di burocrazia e gerarchia. A un certo punto, dopo avere insegnato vent’anni, l’università mi ha annoiato. Ma da studente, a Roma negli anni sessanta, ho studiato bene, molto e con passione. Non so come si possa migliorare un’istituzione. Mi sono dimesso dall’università nel ’95 anche per non pormi questi problemi.

Lei è autore di L’eroe che pensa: che rapporto può avere oggi un intellettuale, o più in generale uno scrittore, con l’impegno sociale e con la politica? Alcuni pensano che gli intellettuali siano colpevolmente assenti dal panorama odierno, lei concorda?
No, anzi, gli intellettuali pensano anche troppo alla politica. In Italia sono spesso malati di politica e questo li rende intellettualmente poco liberi. Ci si chiede se una cosa è di destra o di sinistra, non se è vera o falsa. All’intellettuale politicamente impegnato preferisco l’intellettuale come critico della politica e invece curioso della vita sociale e quotidiana.

A proposito di impegno, con Piergiorgio Bellocchio lei è stato autore di «Diario», rivista militante pubblicata in dieci numeri dal 1984 fino al 1993. Voi avete definito quegli anni «i più liberamente e felicemente produttivi» proprio per il vostro impegno: le lancio una provocazione, che utilità ha avuto? E più in generale, che utilità ha la critica, non solo letteraria?
Nessuno sa davvero se è utile quello che ha fatto. Dovrebbero dirlo gli altri. La critica è prima di tutto una passione della mente, ma non è detto che serva, se non a chi la esercita. Quasi sempre poi, la verità è sterile, serve solo a limitare l’inquinamento dovuto a imprecisioni, deformazioni, omissioni, bugie. Nel ’68 a un giovane impegnato che provocatoriamente le chiese “Ma a che serve la poesia?”, Elsa Morante rispose: “E tu a che servi?”.

In Stili dell’estremismo attaccava tra gli altri il suo “maestro” Fortini: che rapporto ha avuto, e ha, con i suoi maestri? Sente “l’angoscia dell’influenza” teorizzata da Bloom?
Di modelli da seguire si ha bisogno fino a trent’anni circa. Poi, di solito, ci si libera, più o meno lentamente. La cosa che non si perdona ai maestri è che abbiamo cercato di imitarli, o di averci trasmesso i loro errori, o soprattutto di averci fatto tardare a capire noi stessi.

Nel suo Nel paese dei balocchi, pubblicato nel 2001, lei parlava già di antipolitica: che differenze ritrova tra la sua trattazione e l’accezione corriva che il giornalismo ha usato per il M5S?
Penso che Grillo (ho qualche prova) abbia piuttosto saccheggiato quello che dicevamo della politica Bellocchio e io negli anni ’80 e ’90. Penso anche che, almeno negli ultimi tempi, l’abbia usato male. Ha voluto diventare un leader carismatico, uno che si segue cominciando a smettere di ragionare, uno che si affeziona al ruolo di chi comanda. Secondo me non c’è niente di peggio, sia in politica, sia nella cultura e nella religione.

In conclusione, che consigli – pratici e di lettura – darebbe ad un giovane critico e ad un narratore esordiente?
Vedo che lei non ha letto due miei libretti recenti: Che intellettuale sei? e Leggere è un rischio. 

Ho letto con passione e gusto entrambi i libri: uno è anche oggetto della seconda domanda... 
In tutti e due c’è un capitolo dedicato alla critica militante e a un giovane che abbia in mente di fare il critico. Le dispiace se non mi ripeto?
Quanto ai consigli da dare a un narratore, non credo sia possibile farlo in generale, o almeno io non ne sono capace. Dovrei conoscere piuttosto da vicino la persona, vedere che cosa ha scritto, non sputare sentenze ma cercare di entrare nella testa e nel laboratorio letterario di un altro. Tutte cose difficili, che richiedono tempo e impegno. Ero piuttosto portato a insegnare. Ma ormai temo che mi sia passata la voglia.


Intervista a cura di Gabriele Tanda