Marco de Franchi, "Il giorno rubato"




Il giorno rubato
Marco De Franchi
2013, La Lepre edizioni

pp 334
€ 16,00



La collana Fantastico italiano, diretta da Luigi De Pascalis per la Lepre edizioni, si occupa di narrativa di fantasia “con radici nella nostra cultura”. “Il giorno rubato” di Marco De Franchi entra a pieno titolo in questa categoria. La trama racconta l’irruzione massiccia del sovrannaturale nella vita quotidiana e lo fa basandosi sul patrimonio di tradizioni della città dalla quale l’autore proviene, cioè Roma.
Il personaggio principale, Valerio Malerba, è uno scrittore che sforna best seller alla Roberto Giacobbo, dove indaga fenomeni paranormali con razionale lucidità e scetticismo scientifico.  Ma l’irrazionale, l’imponderabile, l’imprevisto piomba nella sua vita, sconvolgendola, scardinando ogni consapevolezza, ogni conoscenza e credenza pregressa, ribaltando lo scibile e la realtà del mondo così come appare. Tutto ha inizio da un giorno che non c’è, il 13 marzo 2007, un giorno rubato, sottratto, sparito nel nulla, un giorno nel quale non sembra sia accaduto niente, di cui l’intera collettività ha perso la memoria. Questo sarà il punto di partenza che metterà Malerba in contatto con presenze più che inquietanti e che di normale hanno ben poco, fino alla scoperta finale, deflagrante, è proprio il caso di dire.

Nelle sue ricerche, Malerba attraverserà e scoprirà una città sotterranea, misteriosa e sconosciuta ai più, facendo rivivere antichi credi pagani come  il culto di Mitra, e quello della Mater Matuta, che non è, come si può pensare, la benefica adorazione della Grande Madre, bensì un rito ancora più remoto, fatto di entità maschili e malvage, venerate da popolazioni stanziatesi sui colli laziali prima dell’avvento di Roma.

Possiamo dire che la Grande Madre è stata la prima espressine umana di quelle terribili e incomprensibili divinità, un loro puerile annacquamento. Un tentativo per dare un nome all’incomprensibile. Il vero grembo da cui siamo nati è quello dei Grandi Antichi: un grembo cattivo, o nella migliore delle ipotesi indifferente. Una madre matrigna cui sacrificare e sacrificarsi, ma invano.” (pag 215)

La stessa madre matrigna di Leopardi, a ben guardare: energie telluriche indifferenti, appena leggermente curiose eppure, alla fine, capaci persino di stupirsi del male che noi uomini siamo in grado di compiere,  laddove loro non hanno intenti né morali né immorali nei nostri confronti, così come noi non li avremmo verso un manipolo di formiche.
Se c’è un difetto nel romanzo (ma è anche una caratteristica peculiare)  è quello di aver voluto “far tornare tutto”, mettendo forse troppa carne al fuoco, mescolando cose fra loro dissimili, dagli zombie ai Cancellatori -  che ci ricordano un poco i Dissennatori della Rowling  - al finale fantapolitico, ma il meccanismo è comunque molto ben congegnato e avvincente.

In questo Piano Zero io credo che si muovano alcune “energie”. Non en conosco la natura o l’origine, e non saprei definirle diversamente. Ma esistono, è un fatto, e ormai ne avrai avuto ampia prova. Forse anticamente venivano adorate come divinità e man mano che il mondo s’è avvicinato all’era moderna hanno cambiato nome e forma, rimanendo però le stesse: demoni, fantasmi, antimateria, particelle di Dio, bosone di Biggs, chiamale come vuoi.” (pag 253)

L’autore, come tutti noi del resto - ma ancor più per il mestiere che fa – non capisce il mondo che lo circonda, sempre più teatro di violenze, di follia, di un disegno scellerato. Tragedie familiari, delitti, attentati, si susseguono, si accavallano, si moltiplicano sempre più, trascinando la società civile verso il baratro, verso il centro del maelstrom.
A contrastarli c’è il personaggio di Malerba, frutto di una mente creativa “serena”, incontaminata dal ruolo che svolge, disegnato con un linguaggio pacato, in una medietà che non è banalità ma, anzi, frutto di equilibrio, di eleganza, di pulizia e misura.
La parte più intrigante della storia, ribadiamo, non sono tanto le vicissitudini di Malerba, per altro un poco ripetitive, ma piuttosto la rappresentazione di una Roma notturna, minacciosa. Ci si sposta attraverso templi, piazze, strade semivuote ed echeggianti, dalla sede dell’antico Foro Boario, alla Bocca della Verità, al mitreo sotterraneo, ai vicoli e vicoletti dove si materializzano allucinazioni di piccole librerie polverose che appaiono e scompaiono.  Lasciandoci cullare dalle libere associazioni, ci viene in mente la via Margutta del mitico sceneggiato “Il segno del Comando”, (1971) per la regia di Daniele D’Anza.
La storia si fa divorare e questo per noi è, e resterà sempre, un valore. In cosa consiste il piacere della lettura se non nel desiderio di girare pagina, di sapere che accade di là, nel segreto godimento al pensiero di riprendere in mano il libro nel punto in cui lo avevamo lasciato? È ciò che ci spingeva alla lettura da bambini ed è ciò che mai dovremmo perdere, in barba a tutti gli intellettualismi del mondo.

Per concludere, diciamo che tirare in Ballo Dan Brown di “Angeli e Demoni” o Stephen King  può apparire scontato e per qualcuno può addirittura non essere un complimento, ma è confortante che non si sia più obbligati a pescare all’estero e, finalmente, si cominci anche da noi a produrre della buona narrativa di genere, scritta con passione evidente e senza sciatteria.