Nell'edizione Oscar Mondadori di Madame Bovary, si possono leggere alcune lettere che Flaubert inviò alla poetessa Louise Colet, con cui ebbe una relazione per otto anni; questo scambio risale al periodo di stesura del romanzo, quindi si dimostrano di enorme interesse per capire come l'autore vivesse quel momento. Flaubert descrive la lentezza con cui procedeva a scrivere, la difficoltà di trovare le parole giuste, il modo di narrare la vita di provincia, gli stati d'animo della protagonista e sembra quasi di sentire la voce della sua eroina, nelle lettere, lo stesso tono trasognato con cui parla dei suoi affanni, la stessa noia, lo stesso senso di vuoto che anima gran parte della vita di Emma.
Alla fine del brano Flaubert si lascia andare a delle riflessioni sulla letteratura e sugli autori, che vede come una piccola élite, rispetto alla folla che non potrà mai comprenderli, per questo sono destinati a vivere separati da chi non può capire, sulla torre d'avorio della letteratura che per lui è imprescindibile e giusta. Pur nel senso di vuoto, però, sente che non potrebbe essere diversamente, affermando una volta per tutte il suo amore per la scrittura, per l'astrazione a cui porta.
A Louise Collet
Croisset, sabato sera
[24 aprile 1852]Credimi, sono davvero contento. E' stato un buon risveglio, cara Louise. E oggi che ho finito il mio lavoro e che è ancora presto, secondo il tuo desiderio chiacchiererò con te il più a lungo possibile. [...]Se non ho risposto alla tua lettera dolente e scoraggiata, è perché ieri ho avuto un grande accesso di lavoro. L'altro ieri sono andato a letto alle 5 del mattino e ieri alle 3. Da lunedì scorso ho lasciato da parte ogni altra cosa e per tutta la settimana ho sgobbato esclusivamente sulla mia Bovary, col fastidio di non procedere. Ora sono arrivato al ballo, che inizierò lunedì. Spero che andrà meglio. Dacché ti ho visto, ho fatto 25 pagine nette (25 pagine in 6 settimane). E' stata dura farle andare. Le leggerò domani a Bouilhet. Quanto a me, le ho talmente lavorate, ricopiate, cambiate, rimaneggiate, che per il momento non ci capisco più niente. Credo però che stiano in piedi. Mi parli dei tuoi scoraggiamenti! se vedessi i miei! Non so come a volte le braccia non mi si stacchino dal corpo per la stanchezza, e come la testa non mi vada in pappa. Faccio una vita aspra, deserta di qualsiasi gioia esteriore, senza nient'altro che una rabbia permanente, che a volte piange d'impotenza, ma che è costante. Amo il mio lavoro con un amore frenetico e perverso, come un asceta il cilicio che gli raschia il ventre.
A volte, quando mi sento vuoto, quando l'espressione si nega, quando, dopo aver scarabocchiato lunghe pagine, mi accorgo di non aver fatto neppure una frase, cado sul divano e ci resto inebetito in una palude interiore di noia. Mi odio, e mi accuso per questa demenza orgogliosa che mi fa affannare dietro una chimera. Un quarto d'ora dopo è cambiato tutto, e mi batte il cuore di gioia. Mercoledì scorso sono stato costretto ad alzarmi per andare a cercare il fazzoletto. Le lacrime mi colavano sulla faccia. Mi ero intenerito da me, scrivendo; sentivo una gioia deliziosa per l'emozione della mia idea, per la frase che la rendeva, per la soddisfazione di averla trovata. [...]
Se tutto quello che ci circonda, anziché formare per propria natura una congiura permanente e asfissiarci nel pantano, ci trascinasse invece in una vita sana, chi sa se allora non si avrebbe modo di trovare per l'estetica quello che lo stoicismo ha inventato per la morale? L'arte greca non era un'arte, era la costituzione radicale di tutto un popolo, di tutta una razza, di un paese. Le montagne avevano profili completamente diversi, erano di marmo per gli scultori.
Il tempo della bellezza è passato. L'umanità, salvo ritornarci, non sa che farsene per più di un quarto d'ora. Più si andrà avanti, e più l'arte sarà scientifica, come la scienza diventerà artistica. Tutte e due si uniranno in cima dopo essersi separate alla base. Nessun pensiero umano può prevedere ora a quali scintillanti soli psichici si schiuderanno le opere dell'avvenire. Nell'attesa, noi siamo in un corridoio pieno d'ombra, e brancoliamo nel buio. Ci manca una leva, la terra ci scivola sotto i piedi. Non c'è punto d'appoggio per nessuno di noi, letterati e scribacchini. A che serve? A che bisogno rispondono queste chiacchiere? Tra la folla e noi, non c'è nessun legame. Tanto peggio per la folla; e soprattutto tanto peggio per noi. Ma poiché ogni cosa ha una ragione, e la fantasia di un individuo mi sembra tanto legittima quanto gli appetiti di un milione di uomini e può occupare altrettanto spazio al mondo, dobbiamo, astraendoci dalle cose, e indipendentemente dall'umanità che ci rinnega, vivere per la nostra vocazione, salire sulla nostra torre d'avorio e là, come una baiadera tra i suoi profumi, restare, soli nei nostri sogni. Sento a volte una grande noia, un grande vuoto, dei dubbi che mi sbeffeggiano in faccia nel bel mezzo delle soddisfazioni più ingenue. Ebbene! non cambierei tutto questo per nulla al mondo, perché mi sembra in coscienza di compiere il mio dovere, di obbedire a una fatalità superiore, di fare il Bene, di essere nel Giusto.