Stamani mi sono alzata
con un cerchio alla testa e il cervello brulicante di immagini e parole. Il
passo era strascicato, la bocca impastata e le mani sudaticce. Gli occhi
socchiusi nel vano tentativo di mettere a fuoco quelle immagini mentali
sfocate. Se pensate che stia
descrivendo i postumi di una sbronza, vi sbagliate di grosso. Niente alcool in
questa storia. È semplicemente lo stato del viaggiatore incallito, lo stato dell’irrequieto che si ferma a
riflettere. E poi, boom! Le immagini, le parole, le idee, i ricordi ti
annebbiano la mente. Il puzzle si ricompone e tutto diventa più chiaro. La
realtà si scontra con il ricordo, e finalmente puoi scrivere il tuo diario di
bordo mentale. Ripercorrere il viaggio appena compiuto e trarne le somme
finali.
Ho sognato Vigàta. No, sono stata a Vigàta. No, ho vissuto
Vigàta. Vigàta… collocata in Sicilia, sì. Piccolo paesino di provincia, stretta
cerchia di abitanti, chi conosce chi. Tu sei l’estraneo. Il puntino nero in una
distesa bianca. L’albero di Natale il giorno di Pasqua, con tanto di lucine e
canzoncine annesse. Ma si tratta solo di un’illusione. Già, un fitto ammasso di
nebbia che viene spazzato via da una figura sconosciuta che ti prende sotto
braccio, silenziosamente, facendoti sobbalzare. E con quel suo siciliano beddro beddro ti fa da guida. La figura narrante – sì, rendiamola neutra,
antropomorfa così come si presenta – ti sorride sorniona e ti strizza l’occhio,
si compiace del tuo spaesamento. Perché l’essere estranei, l’essere al di
fuori, rende il ruolo della guida più magico. E dopo un paio di minuti, quel
siciliano tanto musicale comincia a battere al ritmo del tuo cuore. Ma anche
dell’orecchio e della mente, che quasi dimentica la lingua materna per tradirla
con la nuova arrivata. Una lingua che diviene identità, simbolo caratterizzante
di un popolo dai tratti pregnanti. Forti. Specifici. Una serie di personalità
tanto distinte e chiare quanto unite e partecipi della propria società.
La figura narrante ti porta a spasso tra luoghi e tempi,
quartieri e classi sociali. Prima il 1890, poi i primi anni del ‘900, poi
catapultati nello scenario della guerra, poi di nuovo indietro alla fine
dell’Ottocento. Eppure, il tempo non sembra passare. Che si tratti di un
fantomatico Romeo, di una finta Madonna, di creduloni che si danno alle sedute
spiritiche per il riscatto di un’eredità, di due gelatai che lottano a suon
d’ingegno per il proprio business o di una finta regina “scroccona”, i Vigàtesi
si presentano per quello che sono. Persone legate alle tradizioni e ai valori,
persone semplici e nel profondo ingenue, ma che alla prima occasione utile
ribaltano quegli stessi valori e si danno alla pazza gioia. Abitanti
apparentemente divisi, ma in realtà più uniti che mai. Numerosi, numerosissimi,
si imprimono nella mente dei passanti che li osservano con la forza delle loro
storie e delle loro identità. E per la semplicità con la quale vengono
presentati da quest’unica guida antropomorfa che, anonima e amica del passante,
si diverte a narrare pensieri, parole,
opere e omissioni. Il cordone tra le varie epoche, i vari nomi e cognomi
che si susseguono e le storie verosimili – ma allo stesso tempo bizzarramente
inverosimili – è dato proprio da lui. Un moderno Virgilio a spasso tra i gironi
di Vigàta con un’ignara, ennesima passante.
Il segreto dei vigatèsi sta nell’originalità. All’inizio,
sembrano annoiarti e fai quasi per andartene. Il solito paese, la solita gente,
il solito sentito dire, i soliti pregiudizi. Poi, il riscatto finale. Se al
ritorno da Vigàta ti ricordi di Amalia Privitera – la quale muore proprio lì
davanti ai tuoi occhi, nella maniera più rapida e anonima – vuol dire che
quella figura ti ha colpito. Ebbene, la freccia che ti ha colpito proprio al
centro del petto si chiama miss originalità.
Amalia imprime la sua immagine di finta immacolata nel ricordo della gente
anche dopo la morte, assicurando un futuro al figlio ignaro di tutto. Cecè è
l’unico vigatèse che piange disperatamente per la morte dell’eterno nemico in
affari Micheli. Tanto da morirne di disperazione. Il distinto console-marchese
di Pomerania è in grado di raggirare in modo indisturbato l’intera popolazione
di Vigàta. Manueli si rivela invece un Romeo superficiale e affrettato
nell’agire. Tanto da perdere la bella Agata- Giulietta. E tu sorridi. Sorridi
per l’ingenuità di quella gente che non riesce ad uscire da certi schemi
mentali. Attenzione però, non è un sorriso sprezzante o da sfottò. E’ un
sorriso di complicità alla tua guida che osserva in silenzio le tue reazioni.
Perché la guida, sa esattamente il tipo di impatto che hanno i vigàtesi sugli
estranei. E non può non compiacersene.
Tu, ormai, sei uno di loro. Sei un vigatèse. Ti accingi a raccontare la tua di storia. Io, vigatèse di passaggio, nell’anno in corso. 2013? 1914? 1890? Chi può dirlo? In quel groviglio di date e vicende rimani stordita. Perché quelle date vengono pronunciate tutte d’un fiato, en passant, proprio al principio della storia. E se sei attento e preso, alla fine te ne ricordi. Ma anche se il passante non ci bada, non cambia poi molto. Come ho ribadito già più volte, il tempo dei vigatèsi è fossilizzato. Non nell’accezione negativa del termine, in quanto semplicemente non vedono la ragione di un possibile cambiamento. Loro stanno bene così. Di cambiamenti non si parla mai, né nell’aria si avverte puzza di stantio. L’essere fossilizzati li rende paradossalmente più originali. A diventare scontata, sembri essere proprio tu, ennesima passante con l’ennesima e medesima reazione da sciocca spaccona e per giunta spocchiosa tuttologa. Non puoi essere da meno, devi omologarti alla loro ingegnosità.
Potresti iniziare proprio dall’incontro con la guida che ti
ha spaventata. Col tuo italiano accademico, potresti aggiungere qualche parolina vigatèse per darti delle arie e farti tanticchia
ammirare dal resto della gente. Perché l’idea di essere tu la novità del momento, ti stuzzica la mente. Allora ti volti
verso la guida e cerchi di proporgli la tua idea. Vuoi essere presentata ai vigatèsi, proprio sul più bello, quando Binvenuto si ritrova con ben tre padri.
E’ fatta, è il tuo momento. Già assapori il titolo e…
“[…] i personaggi, e le situazioni nelle quali essi si vengono a trovare, sono frutto di mia invenzione […]”
Boom! È l’onomatopea del viaggiatore che
sbatte incontro al tran tran
quotidiano che gli ricade dritto dritto dal cielo alla velocità di un missile
assetato di sangue. Ti ritrovi con un libretto dalla copertina blu tra le mani,
una tanica di caffè sul comodino e il rumore della pioggia che ti ricorda di
aver passato l’intera domenica a casa. Era un viaggio, sì, ma un viaggio
interiore. Un viaggio nella Vigàta di Andrea Camilleri. E a quel punto, non so
dare un giudizio. Incolpare l’autore per averti coinvolto troppo a tal punto da
farti perdere il contatto con la realtà o ringraziarlo per averti allontanata
proprio da quel maledettissimo mondo? Dopotutto, che importa? A me, Vigàta, mi piacque tanticchia.
Prosegui nel leggere quella che ai tuoi occhi appare essere l’epigrafe apposta al tuo castello di sabbia: “Non inventati sono invece i rituali, gli usi, i comportamenti personali e collettivi di un’epoca che, pur recente, appare lontanissima nel tempo”. La guida ti sorride sorniona, ti stava osservando di sottecchi, è compiaciuta. Sì, sono stata a Vigàta. Poco importa se fisicamente o mentalmente. I Vigatèsi vivono di carta e inchiostro. Palpitano a suon di siciliano e passioni. Sciorinano vicende passionali degne dei personaggi boccacciani. Vigàta è presente in questo libro. Nella mia mente. Nella mente dell’autore. Nella mente dei lettori. Vivono. E io non posso far altro che prolungarne la memoria in questo intenso – seppur breve – diario di viaggio. Baciamo le mani.
Arianna Di Fratta