CriticaLibera: Berlino












Due Vietnam, due Yemen, due Coree, perfino due Gorizia si è inventata la guerra fredda. Avete mai fatto caso che ci sono anche due Georgia? Una nell’impero americano, campi di cotone di un sud ingrato, e una nell’impero russo, giù giù nel Caucaso. Ma quest’ultima coincidenza è davvero un incidente geografico.

La divisione della Germania e di Berlino era invece roba senza paragoni. Nel cuore dell’Europa. Se ne accorse anche JFK in un discorso passato alla storia. Albert Speer, l’architetto di Hitler, poi ministro e figura tra il lugubre e l’esoterico, aveva sognato la Berlino del 1950 e ne aveva mostrato il plastico al Führer. L’avrebbe realizzata di sicuro. La cupola del Reichstag sarebbe svettata su tutta Europa, o tutto il mondo. Invece sappiamo com’è andata a finire e quella cupola dovette accontentarsi di una sbrindellata bandiera sovietica issata da un soldato dell’armata rossa mentre si consumava la caduta degli ultimi presunti nibelunghi.
Ci sono le pagine finali de “Le Benevole” di Jonathan Littell, un caso letterario alcuni anni fa, a raccontare come Berlino bruciava. Strada per strada, palazzo per palazzo, perfino gli animali dello zoo erano coinvolti nel finimondo. Littell narrò in mille pagine la tragedia della seconda guerra mondiale dal punto di vista ripugnante dei carnefici. Orrore su orrore dal fronte orientale, descrizioni minuziose di un perfetto ingranaggio di sterminio. Con coerenza e freddezza. Un libro revisionista, ci fu chi gridò. Diciamo, è il quadro del nazismo senza moralismi, magari un po’ morboso, visto che Littel è di ascendenze ebraiche, ma letterariamente notevole. A mio non insindacabile giudizio.
Torniamo a Berlino, dove il protagonista Maximilian Aue vive da eroe nazionale per una ferita alla testa rimediata a Stalingrado e dove si dedica alla scherma, al nuoto e assiste ai concerti diretti da Karajan e Furtwängler. In principio fu Bärlein: vuol dire orsetto. Carino, no? Il peluche in questione, seppur di pietra, svetta in cima a una colonna a Nikolaiviertel, la più antica zona residenziale dove nel Medioevo passava una via commerciale. Ci sono vissuti Kleist, Hauptmann, Ibsen, Casanova, Strindberg e Lessing. Nel 1944 era un quartiere distrutto, poi invece di Speer ci pensarono Günter Stahn e gli architetti sovietici a rimetterlo in piedi riproducendo case e strade nel modo più esatto possibile. Indubbiamente hanno fatto un bel lavoro. Lo spillone che si materializza dietro i tetti del quartiere e i due campanili della Nikolaikirche non è un fantasma post-moderno, ma la torre della televisione di Alexanderplatz. La chiamano tele-spargel, tele-asparago, in effetti ci sta. Il suo più grande peccato è sovrastare in modo opprimente Marienkirche un grazioso edificio gotico a tre navate.
Ed ecco che ci sovviene una altro monumento letterario al solo nominare questa piazza bruttissima, e bella proprio perché bruttissima: “Berlin Alexanderplatz”, il romanzo di Alfred Döblin, uno dei testi del Novecento che più somiglia a una rivoluzione. Ora, Franz Biberkopf, questo criminale neanche cattivo che si è preso a cuore una prostituta, si aggirava in un mondo sottoproletario che poco avrebbe rallegrato Marx. Il quale, laureatosi alla Humboldt-Universität in Unter den Linden, come noto non ama il sottoproletariato. Tuttavia saranno quelle strade – dove accanto a Biberkopf, negli anni che si nutrirono di cabaret, passeggiavano Brecht, Murnau, Gropius, Josef von Sternberg che dirigeva “L’angelo azzurro” e, ovviamente, Marlene Dietrich – a salutare i carri armati che si facevano interpreti del suo verbo. A vederli oggi, i due cingolati conservati a ricordo, non lontano dalla porta di Brandeburgo, sembrano giocattoli messi lì per i bambini. I paradossi: alla Humboldt-Universität, che cadde nel settore sovietico dopo il 1945, oltre a Marx si laurearono Fichte, Hegel, Engels, Heine, Planck. Questo ateneo ha sfornato venti premi Nobel e altrettanti vi hanno insegnato. Come fece il paese più colto d’Europa a cadere in mano al nazismo? O ancora: come si converti al socialismo il sottoproletariato? Qualche cortocircuito si creò o è rimasto a covare: infatti non mancano a Berlino i neonazisti, i nipoti di quei sottoproletari.
Il traffico scorre regolare di fronte ai palazzi con i quali i sovietici seppellirono il bunker di Hitler, siamo presso Potsdamer Platzt, alla sua riedificazione ha tanto contribuito Renzo Piano. Ecco, se c’è un simbolo di rinascita dalle ceneri è proprio questo progetto urbanistico che accelera verso il futuro per lasciare il 1961, l’anno di edificazione del muro, all’album sbiadito di un secolo su cui ancora dobbiamo accordarci se è stato troppo lungo o troppo breve. Le autorità della DDR lo chiamarono “barriera di protezione antifascista”. Oggi ne rimangono frammenti sbertucciati dove fai a fatica a leggere e interpretare gli antichi messaggi di libertà a pace. Gli americani almeno furono più schietti e al Checkpoint Charlie misero un cartello secco: You are leaving the american sector, tradotto in russo, francese e tedesco. Stop. Il pragmatismo d’oltreoceano. Che resta di quell’epoca: materialmente mostre fotografiche, colbacchi e cappelli militareschi che i turchi provano a smerciare in improvvisati mercatini, poche Trabant ancora non grippate. Non dite i quartieri della ex Berlino est: Prenzlauer Berg è tutto bar, locali e attrazioni culturali per giovani e artisti. Se volete magari ancora il punk di quello incazzato andate a Kreuzberg. Ma è all’Ovest.
Attenzione alle apparenze, nonostante i miracoli da araba fenice, che poi hanno coinvolto l’intera Germania, quella divisione nelle coscienze perdura: all’ovest danno degli ossi a quelli dell’est che è come un po’ dire terroni. Due tra i maggiori scrittori tedeschi della seconda metà del Novecento, Günter Grass e Christa Wolf, non si salvano, il primo passa la vita oramai a difendersi dopo la confessione di aver combattuto nelle SS; la seconda, deceduta, si è macchiata di collusione, più ideologica che spionistica a dire il vero, con la dittatura comunista. Forse, anche quando all’ultima Trabant avranno ritirato il libretto di circolazione, sarà dura dimenticare che ci sono state due Berlino. Anche se adesso ne rimane una soltanto.

M. Caneschi