Game of Thrones
di George R.R. Martin 1996
Harper Voyager, 2011
pp. 801
€ 14,40
“When you play the game of Thrones, either you win or you die”.
Da una minestra
riscaldata può nascere una zuppa appetitosa? La risposta è sì, nel caso di Game of Thrones, il romanzo fantasy di
George R.R. Martin.
Se già nelle iniziali
dell’autore sentiamo riecheggiare il nome del maggior esponente del genere, in
altre parole Tolkien, possiamo dire che tutto il romanzo è la saga del già
visto. Mai come in questo caso a ogni immagine, a ogni descrizione, a ogni
ambiente, a ogni battaglia combattuta e arma brandita, si collega qualcosa di
già sentito e già osservato, qualcosa che fa parte del bagaglio culturale di
chiunque abbia dimestichezza con la fantasia e con l’immaginario. Ci vengono in
mente associazioni di ogni genere, viste e udite non solo sui libri, ma in
televisione, al cinema, ovunque.
I tornei, le
armature, le cotte di maglia lucente, ricordano sir Lacillotto in film come Excalibur di John Boorman (1981), ma
anche Il primo cavaliere di Jerry
Zucker (1995). La giovane Sansa somiglia
tanto a Meg che va alla “fiera delle vanità” in “Piccole Donne” di Louisa May Alcott. Il mezzo gigante Hodor è
simile, anche nel nome, a Hagrid di “Harry
Potter” (che però è del 1997 ed è quindi di poco successivo). I vari casati
in lotta per il trono sono vicini agli abitanti del pianeta Cottman IV nel “Ciclo di Darkover”, o alla storica Guerra
delle due Rose. Le atmosfere sanguinarie, erotiche e barbariche, del filone
dedicato a Daenerys e a suo marito Drogo, ci ricordano sceneggiati televisivi ispirati
alla figura di Attila e di Gengis Khan.
Insomma, è tutto un
susseguirsi di déjà vu. Quindi si potrebbe
pensare che il genere non abbia più niente da offrire, che il romanzo di Martin
sia solo per aficionados influenzati
dal successo dell’omonima serie televisiva. Invece non è così, invece era da
tanto che non ci immergevamo in una lettura di ottocento pagine con la
sensazione di essere precipitati davvero in un secondary world fantastico, curato nei minimi particolari e
coerente. Chi scrive narrativa di genere, infatti, sa che, qualunque sia l’argomento
trattato, non deve mai perdere la fiducia del lettore con errori grossolani. Un
occhio non può essere vitreo, per
capirci, né la volontà ferrea, in un
universo dove vetro e ferro non sono stati ancora inventati. Ed era da tanto
che non vedevamo in atto la subcreazione tolkieniana
con tale forza da farci correre subito in libreria per comprare il secondo
della serie e poi il terzo e via di seguito. All’interno di elementi già noti e
riconducibili a un patrimonio di conoscenze comuni, a Martin va riconosciuta la
capacità di aver sviluppato alcune figure e alcune situazioni in modo molto personale.
Fra i personaggi spiccano
le due ragazzine dal carattere opposto, la mansueta Sansa e il maschiaccio Arya
– davvero riconducibili agli archetipi Meg e Jo – e Tyrion, rielaborazione ovvia,
e insieme geniale, del nano della fantasy. Tyrion è infatti un vero nano umano,
figlio sgradito di un signore della guerra, con tutte le conseguenze
psicologiche che la sua deformità comporta. Ci colpisce anche il piccolo Bran, che
rimane paralizzato per mano nemica e affronta con coraggio la sua sventura,
oppure Jon Stark, il figlio bastardo che
morirebbe pur di essere amato dal padre quanto gli altri figli. I caratteri sono descritti a tutto tondo,
hanno un passato, un presente e un futuro, hanno famiglie e motivazioni psicologiche
profonde, come la misteriosa nascita illegittima di Jon, o l’infelice rapporto
col padre dell’obeso, vile e goffo Sam (a ben guardare molti dei personaggi
hanno relazioni conflittuali con i genitori). L’autore conosce tutte le
sue creature, sa cosa direbbero in ogni circostanza, sa come agiscono, che posto
occupano nello spazio e quali sono le loro movenze.
Al di là dei
personaggi, ci sono poi alcuni elementi che caratterizzano la saga. Uno è
costituito dai direwolves - i non
estinti canis dirus, tradotti malamente con meta- lupi - ciascuno dei quali
accompagna i rampolli della casa Stark. Li percepiamo, grandi e possenti, agili
e spietati ma fedeli e affettuosi con i padroncini. L’altra immagine che ci
rimane scolpita nella mente è quella del Wall,
l’immensa muraglia di ghiaccio che da secoli divide le terre degli uomini dalle
lande selvatiche e desolate del nord, nascondiglio di cose misteriose, pronte a
ghermire nel buio e uccidere. Pare di vederlo, l’immenso muro traslucido, con i
suoi camminamenti cosparsi di ghiaino che scricchiola sotto le suole dei Guardiani,
con le incrinature, le crepe e i rivoletti di scioglimento, in un mondo dove le
stagioni non sono quelle da noi conosciute, ma alternano grandi glaciazioni a
lunghe primavere.
Rispetto alle altre
cronache fantasy, grande spazio è dato alla sessualità, materia che, di solito,
viene rimossa e sublimata. Qui amplessi e stupri sono frequenti ed espliciti, l’universo
è selvaggio e insanguinato, al punto che la serie televisiva tratta dal romanzo
è stata considerata “diseducativa” per i
giovani. Non ci si tira indietro neppure di fronte all’incesto o alla pedofilia.
Jaime e Cersei sono gemelli, come Cathy e Heathcliff (senza averne l’oscura
potenza) si completano a vicenda e l’atto sessuale per loro è una sorta di
riunione con la metà perduta. Daenerys va sposa al suo principe guerriero a
soli tredici anni. Sansa ed Arya sono bambine ma già suscitano
desideri nei maschi adulti.
Anche la religione
trova una collocazione, dimenticata nell’atea Terra di Mezzo e in altri universi
fantastici. Il culto dei septon e
delle septas, che sta soppiantando quella
degli antichi dei, ricorda il conflitto fra cristianesimo e druidismo, così ben
rappresentato non solo da Merlino e Morgana in Excalibur (che, non dimentichiamolo, si basa su La Morte d’Arthur di Thomas Malory) ma
anche nei romanzi della Bradley e, in particolare, ne “Le nebbie di Avalon" e nel suo prequel, “The Forest House”, costruito sulla storia narrata nella Norma di Vincenzo Bellini.
Le tecniche
narrative applicate nel testo sono le più comuni e collaudate del genere. I
personaggi seguono il POV, cioè il punto
di vista circoscritto alternato in capitoli, pratica affinata da Tolkien - il
quale non perde quasi mai la focalizzazione hobbit - e portata avanti poi da
Terry Brooks nel “Ciclo di Shannara”.
La capacità narrativa si esplica con quello che possiamo definire “lo sguardo
circolare”. Mentre racconta, l’autore non perde mai di vista la scena generale,
ha un occhio capace di cogliere i particolari circostanti, si chiede che cosa
fanno gli altri personaggi intorno, chi si sta muovendo nell’ambiente, e fa
agire ed esprimere ogni figura secondo le proprie peculiarità.
Per concludere, possiamo dire che Martin, all’interno di un genere conosciuto e sfruttato, ha saputo trovare un’interpretazione personale,
in grado di dare un senso a ciò che scrive, affinché non sia inutile, superfluo
o, peggio, ridicolo.
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