di Leon De Winter
Marcos y Marcos, 2011
pp. 500
Il titolo innanzitutto: il “diritto al ritorno” è la pretesa dei palestinesi cacciati dalle loro case e dalle loro terre, a seguito delle guerre che portarono nel 1948 alla proclamazione e al consolidamento dello Stato di Israele, di tornare ad abitarvi. Oggi questo diritto non lo rivendicano tanto i palestinesi effettivamente coinvolti, molti dei quali scomparsi, quanto i discendenti che spesso hanno trascorso la loro vita in un campo profughi. Se gli israeliani lo permettessero sarebbe la fine del loro Stato, inteso come Stato ebraico, per un motivo prettamente demografico e statistico. È per questo che se i palestinesi insisteranno su tale punto, non otterranno alcunché. Ciò che pare logico per gli uni non lo è per gli altri e la logica vista dalla parte degli israeliani non fa una piega.
Quindi, titolare “diritto al ritorno” è già di per sé operazione delicata, lo diventa ancora di più perché questo diritto nel libro appartiene non tanto a un arabo quanto a un ebreo. Che sta vivendo la sua apocalisse: eroso infatti psicologicamente e nella geografia, sotto piogge di razzi e attentati, Israele è ridotto alla città-Stato di Tel Aviv. Gli abitanti sono folle di vecchi, prostitute, soldati, medici, criminali. Gli striminziti confini sono controllati da tecnologie che leggono il dna. Avete capito bene, lo scenario è da “Blade Runner”. Una coppia di particolari detective è specializzata nella ricerca di bimbi scomparsi da anni, uno di loro, il protagonista, è vicino alla mezza età. Si chiama Bram Mannheim, è di origine olandese e figlio di un Nobel.
È qui che la struttura del romanzo di infittisce ma i conti alla fine torneranno. Inutile dire che quando le fughe temporali di un’opera finiscono per ricomporsi con omogeneità questo va a merito dello scrittore. Dopo il quadro iniziale, infatti, l’autore propone un flashback al 2004: un Bram trentenne è docente di storia all’università di Tel Aviv ed è un pacifista, litiga con il padre piuttosto anti-arabo, ha una moglie di una bellezza straripante e un figlio. Il suo stile di vita potremmo definirlo glamour. Un giorno la moglie va a prendere questo bimbo all’asilo, Bram è in taxi e gli arriva notizia di un attentato. La moglie non risponde al cellulare, Bram si butta in strada dov’è tutto ambulanze, colonne di fumo, grida, morti. Moglie e figlio sono salvi ma la stanchezza per la situazione che gli israeliani devono vivere gli impone di prendere e andare a insegnare a Princeton. Dove i tre vivono in una casa di campagna che richiede spese continue e dove Bram ha incubi permanenti di cui parla con lo psicanalista freudiano.
In un’improvvisa fiaba nera già preconizzata, mentre la bella moglie è all’estero, il bimbo sparisce. Di lui, nessuna traccia. Bram precipita in un baratro di irragionevolezza, non risponde al telefono alla moglie lontana e la lascia all’oscuro. È nel terrore. Sparisce anche lui. Vaga nelle città americane, vorrebbe ritrovare il figlio tramite uno stato di trance col mondo dei numeri, maniacale il suo rapporto con 2 e 8, diventa un barbone mentre la bella moglie divorzia e si rifà una vita nel cinema. Grazie al caso sarà lui a essere ritrovato e condotto in Israele. È qui che Bram ricostruisce su internet l’identità del rapitore potenziale del figlio: un pedofilo conosciuto. Va ancora negli Usa, pianifica l’uccisione di questo tizio e torna di nuovo a Tel Aviv.
Dove riappare il “Blade Runner” dell’inizio, in realtà Israele nel 2024. Bram ha conosciuto in un bar una prostituta, vive facendo il volontario in un’ambulanza e con la sua agenzia dedita alla ricerca di bambini scomparsi. Il socio ha il corpo per metà di titanio. Ma il lettore qui sente qualcosa, che il figlio di Bram, forse…
Insomma Israele del 2024 è ridotta a un nonnulla: se così succedesse, le colpe potranno essere imputate al fondamentalismo islamico ma significherebbe anche che la politica israeliana di un tempo, il nostro tempo, era destinata al fallimento. Il Medio Oriente è un’area in cui solo i fanatici possono rintracciare responsabilità univoche. E se fossero gli israeliani, per ipotesi, a rivendicare in futuro un diritto al ritorno, il rischio potrebbe essere: ma un ritorno per dove?
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