Jennifer Steil è una donna
americana che in questo libro racconta la propria intensa esperienza come capo
redattrice al giornale Yemen Observer.
Apprezzata giornalista a New York, un giorno Jennifer decide di fare
un’esperienza lavorativa nuova approdando in un paese straniero, lo Yemen, tuttora
complesso da un punto di vista sociale, culturale e politico. La donna è
fermamente convinta di poter diffondere il proprio «vangelo giornalistico»
all’interno di una cultura professionale lavorativa assai differente da quella
americana.
La situazione che trova alla
redazione del giornale rispecchia paradossalmente la realtà esterna: la
redazione è apparentemente eterogenea, composta da uomini e donne, ma i
maschi godono di una libertà d’azione
assoluta rispetto alle redattrici; sono coloro che arrivano tardi al giornale,
hanno una pausa pranzo che può durare alcune ore, masticano in continuazione il
qat (un’erba che dà gli stessi
effetti di una droga ed è legalizzata nello Yemen), privilegi incomprensibili
per qualsiasi paese occidentale e che danno una resa sul piano giornalistico
disastrosa: la cronaca, infatti, risulta essere assolutamente fuorviante e
lontana dai reali accadimenti quotidiani. Corruzione e copiatura sembrano
essere i due elementi che più
infastidiscono la giornalista. Non solo.
C’è qualcos’altro, infatti, che
turba inizialmente Jennifer: ben presto la giornalista si rende conto di come
sia difficile l’ambientamento nello Yemen: le donne vengono importunate di
continuo e la donna è costretta, per poter vivere apparentemente in modo
tranquillo, a mentire sul suo status familiare:
racconta infatti di essere sposata e di non aver avuto (per il momento) dei
figli.
Al giornale Jennifer inizia a insegnare ai
ragazzi nuove tecniche di scrittura e a spiegare esattamente quale possa
essere, anche in un paese come lo Yemen, il corretto ruolo del giornalista. Non
sarà un compito semplice il suo: inizialmente dovrà farsi accettare sia dalla
redazione e cercare di essere compresa all’interno di una società in cui le
donne girano ancora con l’hijab, il
caratteristico telo che avvolge ogni donna yemenita.
Lentamente la protagonista del racconto stringe amicizie salde sia con le donne che con i colleghi, ma mantiene sempre una posizione di netta difesa soprattutto con i maschi per ottenere da loro stima e condivisione. È un obiettivo arduo: gli uomini mantengono, per lungo tempo, le loro consuetudini quotidiane e non mancano, nel corso della narrazione, momenti di sconforto, liti ed esplosioni di rabbia verso i colleghi che non bastano a cambiare le radicate tradizioni culturali di cui continuano a “usufruire”. Si tratta di resistenze molto forti che appartengono ancora ad una cultura che non vuole accettare le regole della corretta vita sociale e culturale che stanno alla base della nostra società.
A Jennifer non resta che
apprezzare i piccoli, ma significativi progressi, che tutti i redattori
conseguono con il trascorrere del tempo: le lezioni al giornale iniziano pian
piane a essere proficue: sebbene ancora infarciti di troppi errori, gli
articoli appaiono più veritieri, personali e ogni redattore si sforza di
attingere a più fonti, rielaborando lo scritto. Certo, l’ultima correzione
spetta ancora a Jennifer, ma la donna si sente più gratificata: iniziano ad
essere trattati argomenti delicati per la cultura yemenita, come l’AIDS (seppur
con l’aiuto di tabelle statistiche e un orientamento più generalizzato che
locale…) e il problema dell’enorme analfabetizzazione del paese in cui le donne
occupano ancora una parte troppo rilevante.
Dopo aver terminato il contratto
che la lega al giornale yemenita, Jennifer torna negli Stati Uniti, ma non ne
rimarrà per lungo tempo. Il desiderio di ritornare nello Yemen per portare avanti
l’opera appena iniziata la spingerà a ripartire. L’obiettivo che si prefigge
Jennifer è quello di preparare un capo redattore che la possa sostituire al
momento del definitivo addio.
In particolare i dissapori tra la
protagonista e qualcuno dei redattori verranno in qualche modo, messi da parte,
durante le concitanti fasi che attraverserà il giornale a causa di un processo
ai danni di un redattore, reo di aver pubblicato una vignetta umoristica
sull’Islam.
In una situazione estrema,
Jennifer però troverà il tempo per l’amore, tanto forte da condizionare
notevolmente le sue scelte future.
Una bellissima narrazione,
assolutamente coinvolgente in cui ancora una volta una donna mette a
disposizione tutta se stessa per offrire la propria esperienza professionale e
umana al servizio degli altri. Un racconto denso di particolari emotivi e a
tratti concitati in cui la protagonista, attraverso la propria testimonianza,
desidera che l’indipendenza e l’autonomia possano diventare anche in un paese
come lo Yemen, qualcosa di raggiungibile. Jennifer è ben consapevole che i
valori saldi che rappresentano la base
del lavoro in cui lei ha sempre creduto si scontrano con la realtà tuttora esistente
nello Yemen: le donne sono ancora discriminate, occupano ruoli lavorativi
secondari e purtroppo vengono spesso molestate.
Jennifer Steil ha imparato ad amare questo paese perché in fondo non esiste un luogo che non abbia conosciuto momenti di tensione, di conflitto sociale e politico. Un luogo, la «Città vecchia di San’a, un agglomerato di case quadrate color biscotto, dall’aspetto di glassa bianca, circondato da mura spesse e alte» che lei chiama pan di zenzero, perché ha imparato ad apprezzarne le differenti “sfumature” umane, è diventanto per lei vero e proprio “pane di vita:” dal “profumo di canfora e dal sapore pungente”, questo luogo, che ha bisogno ancora di nuove prospettive di sviluppo e di integrazione, è ora il suo nuovo ambiente di vita.
Mariangela Lando