Il viaggio in una terra mistica e sensuale
di Richard Wright
Edizione di riferimento Arnoldo Mondadori Editore, 1966 (1957) pp.384
Nel 1954 lo scrittore
americano Richard Wright visitava la Spagna, un Paese oppresso da una
miserabile arretratezza culturale, un abbandono, quello generato dal
franchismo, che sembrava destinato all’eternità e, a giudicare dai fatti, non
lo è stato solo perché la vita del generale Franco non era eterna. Una
condizione esistenziale ormai quasi indolore. Solo lo sguardo di un uomo dal vissuto
come quello di Wright, portavoce tra i più coscienti degli uomini di colore
nella lunga e dolorosa lotta verso la conquista dei diritti fondamentali contro
la violenza dei pregiudizi e della discriminazione, riesce a penetrare la
putrida coltre di questa indolenza per capire una popolazione che, nella sua
visione tragica della vita, sembra scandire le stagioni attraverso i riti pagani
conservatisi nel tempo grazie a un fecondo innesto con la religione cattolica. Le
considerazioni di ordine politico dell’autore, sebbene lucide nonostante lo
sconcerto continuo nella scoperta di un modo di vivere insostenibile nel Nuovo Mondo
(pure considerata la pesante eredità dal Vecchio Continente), possono risultare
a tratti deboli davanti alle suggestioni che invece rende da sé il racconto del
viaggio, la potenza evocativa delle descrizioni di azioni, credenze e luoghi
ora sacri ora profani che nutrono le speranze e le paure di una popolazione
denutrita nella carne e nello spirito, in trappola, che sembrava animarsi solo
in un giro di flamenco o davanti alla carica di un toro impazzito.
In nome dell’Eternità e della Memoria, oggi, addì sette di agosto delle mie glorie, nell’anno duecentoquaranta della mia decadenza. Io, la Spagna, Signora e Sovrana delle due Castiglie, del Leon, dell’Aragona, delle terre dell’Andalusia, di Biscaglia, di Navarra, etc. Imperatrice delle Indie, Procuratrice e Subdelegata delle nazioni straniere, con illusorie pretese sull’Europa intera, sugli altri due angoli del globo e su quanto ancora vi è da scoprire ai Poli,
Dichiaro
Al cospetto del notaio, la Storia, nominando come testimoni il tempo e la verità, come curatori ed esecutori testamentari l’Inganno, l’Ambizione e l’Ignoranza, quanto segue.
In primo luogo lascio come attributo alla mia nazione il dono del Malgoverno, affinché mai in nessuna epoca si possa approvare un progetto utile al Popolo, né si azzecchi quanto convenga ai miei Stati.
Ordino, su richiesta dell’eccessivo numero di delinquenti, che sia bandita dai miei Regni la Giustizia […]
Questo il desiderio espresso
nel Testamento de España (da poco
pubblicato da Liberilibri) testo attribuito non senza incertezze al giurista
Melchor Rafael de Macanaz (1670-1760), diffuso nella Spagna del XVIII secolo,
ma probabilmente inserito tra gli scritti proibiti dall’Inquisizione spagnola
già in precedenza. L’amarezza espressa dalla satira politica, nella forma
retorica della prosopopea, diviene tangibile nel racconto di Wright che ci
mostra quanto gli ultimi desideri di quella figura femminile morente si siano
realizzati.
L’unico ostacolo tra me e una Spagna che mi attraeva e mi respingeva in egual misura era uno stato d’animo […] una tormentosa domanda continuava a inquietarmi: come si viveva quando ogni speranza di libertà era morta? (pp.11-12)
La mia pensione era una cittadella di mala fede , ed era frequentata soprattutto da uomini e donne della piccola borghesia perduti nell’anonimo. […] Erano, fra tutti, una massa di individui depressi , quieti e apprensivi, con una vita squallida che non alzavano mai la voce, rincasavano educatamente e parevano legati dal patto di non fare mai allusione alla propria mortificante condizione. La sera mi servirono una cena scialba, carica di grassi e di fritti (pp.22-23)
E da allora, ovunque andassi, in Spagna, vidi le conseguenze dell’atteggiamento del duca o udii l’eco delle sue parole […] Il duca e la sua classe avevano instillato nell’animo delle masse spagnole l’istinto della vendetta, l’impulso verso la ribellione violenta, il desiderio angoscioso di farla finita col duca e con la sua classe. Ma questi istinti ribelli erano insicuri, pavidi, vergognosi di sé; carichi di senso di colpa, tendevano a celarsi e quando affioravano alla luce del giorno erano camuffati, deviati […] Imparai presto a riconoscere, sotto le mille maschere diverse, l’intimo carattere sostitutivo e simbolico di moltissime manifestazioni spagnole – manifestazioni di ogni genere, dalla Messa alla corrida. (pp. 108- 109)
“Vi comportate come un negro” le dissi. Questo la colpì. “Che intendete dire?” chiese sconcertata “Infuriarsi, lamentarsi e piangere non serve a nulla” affermai “Lo fanno i negri quando sono perseguitati per la disgrazia del loro colore. La disgrazia del sesso è altrettanto penosa. E piangere è assurdo …” (pp. 116)
“Qui in Spagna abbiamo un detto […] Vuol dire che anche se ho fame sono padrone di me stesso, dittatore di me stesso … Vuol dire che dispongo come credo della mia vita… En mi hambre mando yo” (p.126)
“Che cosa fa la vostra ragazza?” Mi guardò allibito “Mais, elle est vierge” ripetè […] Evidentemente essere vergine era già una specie di professione […] il fatto di essere vergine era l’unica cosa al mondo che conosceva, sentiva e pensava. (p. 131)
[Q]uel toro infuriato era al tempo stesso un complemento di un parte soggettiva di quasi tutti i presenti; che pur essendo un animale ben concreto e aggressivo, era una creatura della nostra immaginazione comune, un fantoccio proiettato dal nostro animo e dalla nostra coscienza collettiva, un violento sostituto che ci offrivamo per placare le esigenze contrastanti ereditate dai nostri istinti. […] Ucciso l’ultimo toro […] mi sentivo svuotato, prosciugato, del tutto incapace di altre emozioni […] ero rassegnato a quel mondo, lo accettavo, non me ne curavo, ero, insomma, indifferente alla vita che avevo di fronte […] Questa indifferenza mi turbava […] La catarsi della corrida bastava ampiamente a fungere da valvola di sicurezza nella vita della povera gente. (pp. 140 ss)
In Spagna non esisteva una vita laica, profana […] in Spagna tutto era religione. […] La verità nuda e cruda era questa: la Spagna non era neppure cristiana. […] Il primo, trionfante cattolicesimo, già appesantito da profondi elementi di un paganesimo mal digerito, qui in Spagna era stato succhiato nelle fauci di un paganesimo intimamente radicato nello spirito della gente. (pp. 307 ss)
Vagabondai mezz’ora per il villaggio. Dappertutto regnava lo squallore più totale. L’aspetto fisico della vita dava il senso di trovarsi di fronte a un morbo senza nome. Gli abitanti parevano parassiti brulicanti nell’ispido pelo di un cane rognoso.