Confessions
di Kanae Minato
Giano, 2011
Al suo esordio letterario, Kanae Minato trasforma un racconto
da premio letterario (Premio per scrittori esordienti mistery per il primo
capitolo di Confessions, La Sacerdotessa) in un vero e proprio
thriller agghiacciante.
L’originalità del
thriller sta nel costruire un noir psicologico su riprese cinematografiche. L’omicidio
della piccola Manami, figlia della professoressa di scienze Moriguchi, viene
analizzato e narrato da più punti di vista con una freddezza sconvolgente. Ogni
resoconto aggiunge un dettaglio agghiacciante all’omicidio iniziale che scatena
una serie di nuovi omicidi a catena. Dichiarazioni dirette, lettere, diari
ritrovati, divagazioni di un adolescente ormai folle, telefonate che si
riveleranno fatidiche.
La psiche
adolescenziale e adulta si rivela un’arma a doppio taglio. Minato dimostra
quanto sia labile e sottile lo spiraglio tra normalità e follia, tra giusto e
sbagliato, tra giustizia personale e giustizia di massa. Un thriller che non va
letto tutto d’un fiato ma assaporato parola per parola per capire fino in fondo
il dramma dei personaggi e le cause profonde delle loro azioni. Apparentemente
sembra trattarsi di un incidente, eppure l’insegnante stravolge la classe
rivelando la cruda verità: sua figlia è stata uccisa e annegata da due alunni.
Difficile a credersi, non si tratta di un omicidio così semplice, né di una
semplice ripicca adolescenziale. Si è dinanzi ad una vera bomba ad orologeria:
una madre single – in un Giappone ancora bigotto al riguardo – alla quale viene
strappata via l’adorata figlia. Una vittima innocente che pecca di altruismo
per gli animali e ingenuità. Un genio precoce e pieno di sé, abbandonato dalla
madre in tenera età per proseguire i suoi sogni, che si fomenta nella creazione
di marchingegni pericolosi e fatali
pur di attirare l’attenzione della donna. Un adolescente solo e con una mamma
all’antica e iperprotettiva che cerca disperatamente di avere un amico e una
vita sociale. Tutti elementi di un puzzle dalle tinte insanguinate che mettono
a serio rischio la capacità critica e di giudizio del lettore.
Allo stesso tempo però, si è dinanzi al ritratto fedele di
una società sempre più tecnologica ma indebolita nei valori, nella psiche –
paradossalmente mai conosciuta così bene e a fondo come oggi –, nel sistema
scolastico e nelle priorità. Madri che si preoccupano dei pregiudizi e di
insegnanti che hanno figlie da non sposate piuttosto che insegnare ai figli a
distinguere il bene dal male. Madri che preferiscono gonfiare l’ego dei figli
piuttosto che insegnar loro cosa è giusto e cosa è sbagliato. Adolescenti
sempre più dipendenti da Internet e che cercano di emulare coetanei criminali
che scrivono blog aggiornatissimi, attirati dal fascino del proibito. Un
governo che preferisce fare delle statistiche scolastiche distrettuali effimere
invece di organizzare dei corsi di educazione civica e sociale più ferrati. Un
ritratto tanto agghiacciante perché riflette una realtà tanto vicina e contemporanea.
Oltretutto, riflette la realtà di un Paese che almeno apparentemente ha uno dei
tassi di criminalità più bassi al mondo. Se si preoccupano i giapponesi, non
sarà il caso che anche gli Occidentali comincino a porsi delle domande?
L’obiettivo di Kanae Minato sembra essere proprio quello di
instillare il dubbio. Cos'è la giustizia? Si può davvero giudicare qualcuno? E
sulla base di quali presupposti? La risposta finale sembra essere parziale e
soggettiva, come solo può essere. Perché a ben vedere, la giustizia è un
concetto tanto labile e ideale quanto la psiche. E i fatti di cronaca nera
provenienti da tutto il mondo – che si tratti di criminalità adolescenziale
oppure no – sembrano confermare la tesi della Minato.
Arianna Di Fratta