Pordenone in questi
giorni si è paludata di giallo, il giallo intenso dei tuorli d'uovo
all'occhio di bue che ti guardavano dalle vetrine, dai bar e dagli
stendardi a ricordare a qualunque passante che la città si trovava
nel pieno del festival Pordenonelegge 2013.
Tra gli incontri previsti
nel programma c'è stata la presentazione dell'ultimo romanzo
dell'autore danese Jussi Adler- Olsen “Il messaggio nella
bottiglia”. A moderare e condurre Roberto Costantini (autore di “Tu
sei il male” edito da Marsilio nel 2011). Dopo l'incontro con il
pubblico, ho avuto il piacere di poter fare qualche domanda allo
scrittore. Un incontro piacevolissimo e molto divertente che ha ancor
più completato e ampliato l'apprezzamento per il suo lavoro.
D: Parliamo dei
personaggi, tutti a loro modo particolari e strani. Ci racconti
qualcosa di loro.
R: Carl Mørck,
il protagonista, deve il suo cognome ad un omicida che è stato in
cura da mio padre quando ero piccolo (Ndr il padre dell'autore era
psichiatra). Carl invece è il mio primo nome: potremmo dire che
questa figura ha in sé dell'eccezionale (si indica con aria
modesta) e del cattivo. Assad, l'assistente siriano, è nato
ispirato dai tassisti mediorientali. Tutte le volte che salgo in taxi
mi trovo immancabilmente a confronto con uomini molto più istruiti
di me. Come fare a non odiarli? (fa una smorfia comica). Assad
poi può essere sintetizzato da una frase detta dal mio traduttore
americano. Un giorno l'ho chiamato, era un po' che non ci sentivamo e
gli ho detto “Ti ho pensato spesso ultimamente” e lui ha risposto
“Curioso: anch'io penso spesso a me stesso negli ultimi tempi”.
Quello che importa è che
tutti loro hanno delle stranezze, qualcosa di fuori dall'ordinario.
Potrei scrivere anche di gente normale, ma poi chi se ne
ricorderebbe?
D: Come mai ha scelto di
raccontare, con la saga della Sezione Q, dei cold cases?
R: Ho avuto anche modo di
studiare medicina in passato. Volevo capire se fosse possibile
raccontare e risolvere un caso tramite analisi del DNA o del sangue
trovato su un documento.
D: Dopo l'uscita dei
romanzi di Larsson, gli scaffali si sono riempiti di noir e thriller
a marchio scandinavo. Cosa pensa della diffusione di questo genere?
R: Ammetto di non aver
mai letto altri autori come Larsson o Nesbo. Temo che la lettura di
genere possa influenzare il mio lavoro. Tra alcuni anni mi metterò
in pari e li leggerò tutti. Però, a proposito del thriller e del
noir, posso dire che sono generi che sono sempre esistiti. Pensiamo
alla tensione narrativa che Dumas riesce a infiltrare ne “Il conte
di Montecristo” o, andando più indietro, quando noir possa essere
la Bibbia. Mosè ce la farà a scappare dal faraone? Il mare si
aprirà davanti a lui? E' un genere che ha radici antichissime e che
consente di inserire moltissimi elementi dall'avventura alla storia
d'amore. Poi, e forse questo si può dire, noi nordici siamo più
portati al genere noir: in fondo discendiamo dai vichinghi che
ammazzavano solo per riscaldarsi durante l'inverno.
D: Quali sono allora i
suoi genere i autori preferiti?
R: Leggo molta
letteratura dell'assurdo, il genere di Samuel Beckett per intenderci.
D: Niente di più leggero
o rilassante? Gli scrittori non ammettono mai di leggere cose poco
impegnate.
R: Mi creda! Sul serio, leggo principalmente quel genere. Posso aggiungere che adoro
Steinbeck e non sopporto Hemingway. Però sono appassionato di film:
con mia moglie ne guardo almeno uno al giorno. E sono assolutamente
patito delle serie TV americane come Breaking Bad o i Soprano.
D: Visto che ha parlato
di film, a breve dovrebbe uscire la riduzione cinematografica del suo
primo romanzo “La donna in gabbia”. Ha partecipato alla
sceneggiatura? Se si come pensa sia riuscito il lavoro?
R: (appoggiando la
testa alla scrivania in una parodia di disperazione)
No. Non mi hanno permesso di lavorarci. Quindi non sono poi così
interessato al risultato sullo schermo. Sa però cosa mi hanno
proposto un mese fa? Una serie TV. Lo sapeva?
D: No, questo da internet
non era ancora trapelato. Si può sapere qualcosa di più?
R: Un giorno suona il
telefono, rispondo e dall'altra parte del filo parla Scott Frank (Ndr
sceneggiatore, tra gli altri film, di Minority
Report). Non volevo crederci. Mi ha proposto di realizzare tre
serie ciascuna di dieci puntate: una serie per ogni libro. L'idea mi
entusiasma: in un film devi tagliare troppo per poter realizzare le
scene. Una serie permette di allungare, come un elastico, la storia e
di entrare veramente nel profondo.
D: Lei prima era editor
di fumetti e lavorava nel mondo dell'editoria anche come correttore
di bozze. Quando è stato, se c'è stato, il momento in cui ha
deciso: “Ora basta! Faccio lo scrittore”?
R: Erano anni che mi
capitavano sotto mano dei manoscritti pessimi e pensavo “Io potrei
fare molto meglio!” ma c'è stato un momento molto preciso in cui
ho smesso di fare l'editore. Ero a Roma nel 1992, seduto al tavolo
con i dirigenti della Philips che volevano acquistare i diritti di
alcuni fumetti. Nascevano, in quegli anni, i CDI e questi grossi
manager volevano realizzare dei giochi interattivi: il bambino
avrebbe potuto scegliere come montare le vignette e creare nuove
storie e finali alternativi. Fin lì tutto bene. Poi ho pensato che,
una volta ottenuti i diritti, avrebbero riversato sul mercato quel
prodotto e tanti bambini, come mio figlio, avrebbero avuto
un'infanzia dietro al pc. E la cosa non mi è stata più tanto bene.
La mia carriera come manager è finita quel giorno e sono tornato a
casa a fare il papà che cucina pancake e gioca a football con il
proprio figlio. Ora faccio il lavoro più bello del mondo: mi sa dire
quante altre persone posso permettersi il lusso di lavorare in
pigiama?
D: Domanda semiseria: nel
romanzo, oggi stesso all'inizio della presentazione, non ha perso
occasione per punzecchiare la Svezia. Come mai?
R: Sul serio? Faccio
battute sulla Svezia? (Ride). Va premesso che noi Scandinavi
ci sentiamo tutti parte di una grande famiglia. Siamo molto uniti,
abbiamo radici comuni e parliamo una lingua molto simile. Io stesso
ho delle case in Svezia. Ma se i Norvegesi sono i bambini cattivi e i
Danesi i ragazzi scapestrati, gli Svedesi sono come la sorella maggiore che
punta il dito e ti dice sempre cosa puoi e non puoi fare. Si prendono
sempre troppo sul serio, pretendono rispetto, non hanno senso
dell'umorismo e ci guardano dall'alto in basso: dimenticano che noi
abbiamo la Groenlandia e, tecnicamente, siamo lo stato più grande
d'Europa. Mi permetto di prenderli in giro proprio come farei con le
mie tre sorelle.
Un incontro frizzante.
Molte domande sono state poste da Costantini, il pubblico ha alzato
in continuazione la mano bruciando anche alcune delle mie curiosità.
Di sicuro, tra tutti, abbiamo dato parecchio lavoro da fare
all'interprete.
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