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Il Salotto: intervista a Rossano Pestarino

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L'ultima volta che ho visto Rossano Pestarino è stata a Torino, alla fine del giugno del 2012. Avevo letto il suo libro Lune d'Honan e volevo intervistarlo - anche perché le recensioni non so davvero come si facciano. C'erano versi che avevo trovato ardui e dentro ai quali non ero sicuro di essere riuscito a entrare, e altri invece di chiara per me e da me invidiata bellezza, per esempio:

le spacca il sole immobile lassù
le piroette dei bambini scalzi
insomma, ogni angelo fa specie a sé
in fondo in fondo ai corridoi bui

Numerosi i riferimenti altissimi, costante l'autobiografia. Così ho provato a interrogarlo, passeggiando con lui, segmentando il centro, dai Giardini Cavour fino a Porta Palazzo. I bouquinisti di via Po ci rallentarono, ma fu una libreria che avrebbe di lì a un mese chiuso i battenti e che pertanto svendendo svuotava gli scaffali e i magazzini a risucchiare tutto il suo interesse. Sul registratore sono rimasti incisi tentennamenti (miei), dinieghi (suoi) e un silenzio frusciante.
Nell'anno che è seguito ho riletto le sue poesie, nelle notti insonni e nei dormiveglia diurni, e ho raccolto le domande che si erano disperse durante quella flânerieho atteso, come si attende durante un assedio medioevale, finché non ho ottenuto alcune risposte, queste:

D: Il tuo libro si intitola Lune d'Honan, riferimento al Turandot: dov'è il tuo personale laghetto blu?

R: Non un posto reale, non c’è bisogno che te lo dica. Un quando più che un dove. Sono momenti, piuttosto rari, almeno ultimamente. O un posto della mente, non importa il dove, un posto del , il limpidamente presente a se stesso: in fondo quel laghetto è uno specchio. Quel blu è prodigioso, quando si lascia vedere. Vi si vede il mondo “alla rovescia”. Infatti quest’immagine ritorna anche nel finale del libro, il mondo alla rovescia, la Patetica di Ciajkovskij ecc. ecc.. Che è poi forse il vero vedere, le radici, le profondità, se non altro la prospettiva diversa e inusuale. Ma il laghetto resta imperturbato per poco, è uno specchio fragile. Accade poi un gesto di una certa violenza, un bere a fiore di quella superficie, a piene mani, che la scompone e altera.

D: Sono numerosi i riferimenti alla musica classica, per esempio Mahler (Humoresque), Bruckner (Romantica), Sibelius (Ascoltando Sibelius), Schumann (Ogni gesto preciso che fa). Che ruolo giocano nei tuoi versi?

R: Sono suggestioni, evocazioni di un linguaggio diverso che mi è molto caro, anche perché lo pratico solo da fruitore, e quindi con tutta la meraviglia che ne deriva. Un linguaggio tra l’altro più legato all’aspetto “esecutivo” di quanto non sia la poesia, in questo senso più indipendente ma forse anche un po’ più fragile per questo; forse più astratta. Vedi Leibquartett. Non so se i miei versi abbiano una loro “musica”, dei temi ricorrenti e variati, delle tonalità intrecciate e dialoganti a distanza. Lo spero. C’è anche l’Incompiuta, che vorrebbe celebrare (la poesia, non la sinfonia) quello che resta, nonostante tutto, fino alla fine. Oppure no.

D: Nel libro è presente una grande ricchezza lessicale: non hai paura di usare parole come rabidi, satolli, saprofita, lasca, cheratinosa, sperla, commessure, canappia, arsito. Qual è l'effetto che cerchi con questa strumento?

R: Non ho paura. Delle parole no: di molto altro, di quasi tutto il resto sì, ma delle parole no. Dovrei? Tra quelle che citi ci sono rabidi, o arsito, rare, sì, ricercate (me le ha insegnate Pascoli: senz’altro la seconda, forse anche la prima); poi ci sono quelle diciamo di stampo dialettale, una sperla di sole (si dice così nel mio dialetto ligure-piemontese, e forse in altri), che su una rivista è diventata una perla di sole (allora avrei piuttosto preferito una spera!), o anche la canappia, cioè il nasone (in quest’ultimo caso l’effetto è semplicemente comico, anche per via del contesto, visto che si evoca quella di Dante). Qual è l’effetto che cerco? Bisognerebbe vedere caso per caso, ma non so se saprei “rivelarti” un’intenzione. E poi sono belle. Ti fanno fermare un momento, evocano. Il saprofita altrove, sigillo di un certo tipo di vita che si nutre di ciò che non è più; o i cavalli satolli: belli, tranquilli, quasi immobili, con gli occhi inquisitivi (e questa? Inquisitivi non dovrebbe fare paura anche lei? Se fossero occhi umani sì, ma sono dei cavalli: o meglio, sono occhi umani, ma paragonati a quelli miti e ragionevoli dei cavalli, e quindi perdono la ferocia degli occhi umani: beh, non tutti…).

D: Come concili il tuo lavoro di ricercatore universitario con la scrittura? Ti aiuta? E in che modo? O è un ostacolo?

R: Conciliazione non c’è. La poesia poi non è conciliazione con nulla, figuriamoci, o con molto poco. C’è, credo, un dialogo, però spesso su posizioni e prospettive diverse, forse radicalmente. A volte ho temuto che sia stato un ostacolo.

D: Per tre volte usi una lettera dell'alfabeto per formulare una metafora: le V altissime dei suoi migratori per descrivere il volo degli uccelli (Il cielo), le M maiuscole delle palme unite degli innamorati (Humoreske), la O nera del pozzo (Patetica). Il mondo è un testo da decifrare?

R: Sì, lettera per lettera. Il mondo scrive continuamente. Nel mondo muta continuamente il rapporto tra bianco e nero sulla pagina: vedi Confiteor. Non so però se le palme delle mani di cui si parla in Humoreske sono quelle degli innamorati, e tanto meno se sono unite. È più un’immagine spettrale, di solitudine ctonia (vedi anche la poesia che segue poco dopo, appunto intitolata Solitudine). L’amore è ancora lontano da tutte queste figure.

D: I classici si intravedono più in filigrana che esplicitamente citati. Penso al verso la morte sprecata vivendo (Prologo) che richiama l'ungarettiano la morte si sconta vivendo. Chi sono i tuoi autori preferiti, chi sono quelli che più pensi agiscano e siano presenti poi nei tuoi versi?

R: Ho letto sempre con molto coinvolgimento i grandi classici, più o meno i soliti grandi classici di tutti: li ho sentiti sempre molto vicini. Poi li ho anche dimenticati, e questo forse basta a far sì che riaffiorino in quel modo, come dici, in filigrana. Anche se il citazionismo non mi dispiace affatto (qualche citazione nel libro c’è). Ci sono autori che diciamo mi sono serviti a crescere, a cambiare, o a riconoscermi diverso, in diversi momenti della mia scrittura; appunto quelli che ho letto e riletto con affetto, ciclicamente, vedendomi diverso, grazie a loro, nello specchio che mi offrivano: Petrarca, Tasso, Leopardi, Pascoli (un po’, ma meno, anche d’Annunzio), Caproni. Ho letto per lungo tempo Rilke, Eliot, Kavafis, Rimbaud, Poe, ma anche, ad esempio, Jonathan Swift (vedi perché la fissa dei cavalli di cui sopra?). Gli ho persino rubato un finale, al Decano di San Patrizio (ma mi sono autodenunciato nella nota): questa poesia di cose, insomma, mi ha sempre affascinato, anche se lui ci mette sempre, ovviamente, la caustica prospettiva satirica; però vede, con chiarezza, con nitore (fin troppo). Poi c’è stato un tempo in cui ho quasi smesso di leggere poesia (ma non perché invece scrivessi venti poesie al giorno). Anche Montale per molto tempo non l’ho più letto. Ma i classici, però… Quae mare navigerum, quae terras frugiferentis | concelebras. E la grande poesia del Rinascimento.

D: Ci leggi una tua poesia?

R: La scacchiera, in memoria di una bruciante disfatta torinese dell’estate scorsa (unica macchia in una giornata di grande e rara gioia) e di altre e più allegoriche disfatte.

Pescata d’occasione un dì d’inverno
che Genova d’un tratto fu più mite
nella mano guantata di papà,

smussata agli angoli di legno biondo,
rosse e crema le case, poi segnate
di pennarello nero con la sua
grafia nervosa e stretta.

   Mi attendeva
ancora, all’orizzonte
lunare del futuro, la Novella
degli scacchi, con tutti gli altri libri:
l’angoscia dei perimetri,
la paranoia docile
della memoria, i passi più vicini
degli aguzzini mediocri e seducenti…

ma i pedoni marciavano stringendo
i ranghi; stramazzavano nitrendo
nella polvere grigia i cavalli
di un’immaginazione già scavata
dall’astrazione precoce, marginale
come il tarlo che campa
nei ripostigli, tra gli errori dei sensi
e il ballo in maschera dei pensieri paurosi.