di Elsa Morante
Einaudi, 2013
1^ edizione - 1982
€ 13 (cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
Ogni creatura, sulla terra, si offre. Patetica, ingenua, si offre: «sono nato! eccomi qua, con questa faccia, questo corpo e quest'odore. Vi piaccio? mi volete?» Da Napoleone, a Lenin e a Stalin, all'ultima battona, al bambino mongoloide, a Greta Garbo e a Picasso e al cane randagio, questa in realtà è l'unica perpetua domanda di ogni vivente agli altri viventi.
Tra
gli ultimi anni cinquanta (dopo lo Strega a L'isola di Arturo)
e il sessanta, Elsa Morante lavora a un progetto di romanzo
intitolato Senza
i conforti della religione,
un canovaccio sulle forme della religiosità contemporanea che non
vedrà mai la luce ma che inseminerà due successivi ovuli letterari:
l'uno, La
Storia
(1974), di struttura narrativa entropica eppure corale – di
un'umanità travagliata e pure generosa; l'altro, Aracoeli
(Einaudi, 1982), l'ultimo romanzo – l'ovulo cieco.
Nel
1976 (l'anno prima moriva tragicamente Pier Paolo Pasolini), inizia la
gestazione di Aracoeli,
che durerà cinque anni. Il tempo della storia è risicatissimo: nel
giro di pochi giorni si esaurisce il viaggio di Manuele, 43 anni
brutto impiegato di un'angusta aziendina editoriale (carattere degno
di un Kafka!), a El Almendral – Andalusia, sulle tracce dei luoghi
nativi di sua madre Aracoeli, anzi sulle tracce di Aracoeli stessa
che coincidono con quelle del séstesso. Il tempo della narrazione,
invece, si snoda – complice una lunga serie di flashback
– attraverso l'infanzia del protagonista, il cui epicentro è
l'amore terribile per sua madre, ovvero l'atavica categoria
esistenziale dell'esser-bello-per-lei.
L'intera confessione, omodiegetica e a
tratti lamentosa, è una sorta di “poesia alla mia balia”,
puntellata dalle alterne vicende storiche riemergenti dalla memoria
favolistica di Manuel Manuelito Manuelino. L'indagine introspettiva
del narratore – mi verrebbe da dire con le parole che Auerbach
riservò a Virginia Woolf – è un riflesso della sua coscienza; e
non un'elucubrazione, come è apparsa sovente a molti.
(ma chi potrà dire le vere cause, spesso disperate, di certe fissazioni?)
Il
Lettore della Morante, si sa, subodora a ogni rigo l'elemento
autobiografico, specie laddove stringe la reiterata dialettica
genitrice/tore-figlio. Citerò, exempli
gratia,
il dato più evidente: come per Manuele da Totetaco (Montesacro
nella percezione fonetica del bambino) ai Quartieri Alti, anche
l'infanzia di Elsa Morante aveva migrato da Testaccio a Monteverde
nuovo, un quartiere borghese. (A questo proposito, tra le morte
ferite scandagliate dalla Morante, quella sociale, del sentirsi un
paria
perché nato nella snaturata borghesia romana, è una delle più
incidenti e subdole.)
Attenzione: quella di Aracoeli non è la
storia di una deificazione. Delle volte, infatti, Aracoeli assomiglia
più a un animale:
Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa.
Il sugo della storia è l'esatto
contraltare, lo svelamento del padre come l'anello debole, che è poi
la blasonata perdita dei punti di riferimento della letteratura
novecentesca, lo strappo nel cielo di carta:
Fino dalla mia nascita, per me paternità significava assenza; e si sa che l'assenza è una legge ordinaria dei numi.
Elsa Morante ha dedicato a se stessa un
vangelo estremo, guardandosi negli occhi a pochi passi dalla fine:
Raramente ci si guarda, con se stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio dei propri occhi – con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono – si arrivi a distinguere finalmente in fondo alla pupilla l'ultimo Altro, anzi l'unico e vero Sestesso, il centro di ogni esistenza e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome Dio. Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d'amore ormai scaduta e inservibile, ma ostinata fino all'indecenza.
Elsa
Morante riuscì nell'intento di essere intanto scrittrice; il bisogno
di cui moriva però era quello di essere maschio (come del resto
molte della sua generazione, Natalia Ginzburg ad esempio).
Guardandomi bene dal procedere sul facile terreno degli psicologismi,
mi limito ad osservare che nel limbo di Elsa Morante abitavano le
figure emaciate di Francesco Lo Monaco (il padre naturale), Moravia,
Bill Morrow e Pasolini prossimo nostro, tutti padri finiti e finti
che avevano deluso la sua domanda d'amore. A chi avesse contezza
dell'universo narrativo della M. non sfugge che il compimento
pessimistico dello Scialle
andaluso (1963)
è quindi Aracoeli.
L'immaginario onirico di Manuele è assediato dalle trame di una
natura maligna. Lo protegge da lei, il forte difetto della vista
nella cui torbidezza subito si rifugia, levandosi gli occhiali per
non
potere vedere.
Ribaltare
lo schema genetico di Procida forse basta a svelare il segreto di
Elsa Morante, la sua agnizione. Vilèlm il bastardo è Aracoeli la
puttana (puttana come Rosaria nel capolavoro Menzognae sortilegio).
Se c'era un mondo da salvare, i ragazzini da soli non potevano
farcela. La simbologia celeste è, purtroppo, una simbologia dei
ruoli familiari degenerati o fraintesi, in cui la maternità è solo
un alibi, o un'ambiguità che ha molto a che vedere con l'idea
biblica del “grembo” di Dio (lessico e immagini sono intrise di
riferimenti vetero- e neotestamentari, di una religio contaminata da
accenti di superstizione popolare o, in altri momenti, da moralismi
di classe).
In verità – come insegna una legge antica – l'intelligenza contamina i misteri: violentarli è un lavoro disgraziato, che si conclude nel guasto e nella degradazione. (…) A costo di calunniarti e maledirti e rinnegarti, io non ho MAI voluto riconoscere la denunciata impossibile miseria del tuo ultimo segreto. La tua terribile ambiguità – tua buiezza e imbroglio, tuo scandalo tuo splendore – mi accompagnerà, giocando, al traguardo del vuoto. Che tu sia benedetta, mamita, per il tuo alibi.
Aracoeli
è un romanzo difficile, e forse a tanti risulterà piuttosto
indigesto. Ma vale la pena di farne esperienza, non foss'altro per il
gusto-disgusto di riconoscersi, al di là di ogni possibile vizio di
interpretazione.
Andrea Gatto
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