a cura di don Antonio Mazzi,
Cristina Mazza, Elisa Frezza e Gabriella Ballarini
Erikson, 2013
€ 14
pp. 162
L’educazione è l’arte di cogliere le sfumature di una persona, carica di esplosioni vitali per aiutarla a interpretarle, contaminarle e radicarle nell’avventura. L’educazione crea unicità, anticonformismo «disidentità» personalizzante, storie uniche di anormalità alternative. Fotocopie, cartoni animati e iniziative cariche di colori artificiali e dipinte con pennarelli psicologici prossimi alla scadenza non fanno parte della pedagogia creativa. Teorie malcopiate e maldigerite buttano sul mercato caricature e personaggi precari e senza profondità. L’educatore non può adattarsi ad un sistema che produce uomini giocattolo.[1]
Ogni persona è ricca di potenzialità
inespresse, di risorse che hanno bisogno di essere manifestate: aiutare a
«interpretarle, contaminarle e radicarle» nella società attuale significa
innanzitutto comprendere ciò che spesso non viene accolto.
Le esperienze raccolte in questo
bellissimo volume partono tutte da un elemento imprescindibile: l’unicità
dell’altra persona, la sua diversità è intesa come individualità portatrice di
carattere, di una sensibilità specifica e di un’intensa particolarità di vita
vissuta con cui l’educatore cerca e trova principalmente un dialogo.
Qual è il significato di educazione? È
possibile educare l’altro? Ma soprattutto, chi è l’educatore e con quale
atteggiamento si pone per entrare in comunicazione con persone che provengono
da situazioni familiari, sociali e culturali differenti dalle proprie e
profondamente disagiate? Non è rilevante conoscere l’appartenenza di queste
persone a minoranze o gruppi che hanno una loro identità sociale che va
innanzitutto rispettata e capita, ma il volume vuole essere innanzitutto una
testimonianza concreta di come si possano intraprendere dei viaggi, degli
itinerari erranti a tratti anche estremamente difficili da attuare, all’interno
di situazioni sociali complesse, e di come la figura dell’educatore sia prima
di tutto scandagliata con quella che può sembrare al lettore un’attenta
severità di giudizio iniziale.
L’educatore non è un eroe che deve a
tutti i costi compiere una missione, o qualcuno che desidera realizzare un
progetto magari con la speranza di ottenerne qualche vantaggio: è una persona
che sceglie volontariamente di intraprendere un itinerario di vita che si
incrocia con il destino di altre persone, che instaura un dialogo anche nelle
situazioni più improbabili, difficili e che, giorno dopo giorno, soprattutto,
si predispone a intravedere un percorso
di riconoscimento dell’altro; un viaggio che diventa un mezzo per comprendere e
ridare il sorriso nel viso degli altri, un itinerario anche connotato a tratti
di inevitabili momenti di difficile gestione psicologica personale.
Il volume è suddiviso in due
sezioni: nei capitoli della prima sezione intitolata, Storie di un metodo folle, si delinea la nascita dell’associazione
ESF, l’ampio significato del concetto di educazione, lo scopo e il ruolo
dell’educatore; si tracciano alcuni orizzonti di riferimento: l’attenzione e la
riflessione riguardanti i problemi educativi, le idee e i disegni per conoscere e affrontare le realtà e le
loro problematiche attinenti, i progetti che riguardano la formazione degli educatori, gli interventi
nei casi di emergenza e l’elaborazione di strategie d’intervento opportune che
partono dalle realtà esistenti: «gli educatori senza frontiere seminano, ma non
costruiscono»[2] e quindi «donano, ricevono
e restituiscono: l’educazione è una restituzione continua»[3], un
viaggio in cui la transitorietà, l’incertezza e la fragilità propria e del
movimento rappresentano un mezzo attraverso cui si riconoscono le fragilità e
le debolezze altrui.
L’educazione è un processo continuo,
instabile, fatto di andirivieni costanti, è una battaglia che inizia da se
stessi; è l’educatore stesso ad essere definito ad un certo punto della
narrazione «un folle» perché crede che l’impossibilità di raggiungimento di
alcuni obiettivi sia invece concreta e
possibile, perché egli è spinto e promosso da una visione positiva della
realtà anche quando spesso risulta essere deformata o travisata.
Come ha ben evidenziato don Mazzi nel
capitolo intitolato Genesi di un metodo
folle «che non crede ai metodi, alla burocrazia, ai programmi e alle
organizzazioni di tutti i tipi» perché dove «vince l’organizzazione muoiono gli
organismi, la poesia, l’amore, l’umanesimo, la follia, le relazioni genuine, la
creatività e la felicità», l’educatore deve affrontare metaforicamente un
percorso che ricorda molto lo scenario apocalittico di Cormac Mc Carthy in La strada:[4] qui un padre si
ritrova, dopo una catastrofe che ha distrutto interi paesaggi, a percorrere un
tratto di strada assieme al figlio, in una situazione di annientamento totale e
il protagonista assoluto del racconto sarà il dialogo tra padre e figlio. Un padre e un figlio (entrambi senza nome)
percorrono una lunga via asfaltata verso il sud America per sfuggire al
freddo invernale, in un paese sopravvissuto e con la consapevolezza che gli
accadimenti hanno spazzato via ogni essere vivente, dando ancora possibilità
d’uscita solo agli uomini.
In La strada le parole che il bambino
pronuncia costantemente verso il padre: «Ce
la caveremo, vero, papà? Sì. Ce la caveremo. E non ci succederà niente di male.
Esatto. Perché noi portiamo il fuoco. Sì. Perché noi portiamo il fuoco» rinviano a
situazioni che in qualche modo ritroviamo in alcuni episodi narrati nel
libro. È metaforicamente proprio il “fuoco” d’azione, l’ardore e l’entusiasmo
che devono portare l’educatore alla vicinanza e al servizio dell’altro, in
scenari, luoghi e momenti attraversati da situazioni ed eventi che appaiono
distanti dalla nostra normalità sociale.
La seconda parte è intitolata Diario delle possibilità: qui vengono
narrate alcune esperienze formative dei ragazzi che aderiscono e collaborano al progetto di Educatori senza
frontiere.
Alcuni diari di viaggio raccontano,
in particolare, esperienze di formazione scolastica e professionale in luoghi
sia italiani, Assisi, ed esteri come l’Angola e il Madagascar; esperienze
collettive teatrali e di crescita in cui il laboratorio di teatro diventa un
vero e proprio codice di comunicazione dove ognuno si riappropria del proprio
spazio e della propria personalità, grazie ad una rigenerata simbiosi tra la
gestualità del proprio corpo, la scrittura in qualche modo liberatoria e la
narrazione collettiva; una conoscenza reciproca che si intreccia in modo
spontaneo alla conoscenza e pratica della vita stessa, mediante il contatto con specifici settori della realtà rivelando ad ognuno potenzialità, piaceri e una
rinnovata apertura alla vita.
Un libro veramente interessante che
non ha nessuna pretesa pedagogica, ma che si pone all’attenzione del lettore
perché vibra di esperienza umana, trasversale, di forte elargizione di se
stessi e che insegna come sia importante
l’ascolto, il rispetto e la capacità d’azione anche quando «la
solitudine fa deserto, la notte dispiega nel cielo costellazioni ignote» e in
tanti luoghi del pianeta si «succedono in rapida sequenza le esperienze del
mondo»:
Facendoci uscire dall’abituale e quindi dalle nostre abitudini, le parole nomadi ci espongono all’insolito dove è possibile scoprire, ma solo per una notte o per un giorno, come il cielo si stenda su quella terra, come la notte dispiega nel cielo costellazioni ignote, come la religione aduna le speranze, come la tradizione fa popolo, la solitudine fa deserto, l’iscrizione fa storia, il fiume fa ansa, la terra fa solco, la macchina fa tecnica, in quella rapida sequenza in cui si succedono le esperienze del mondo che sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e di disporle in successione ordinata.[5]
Mariangela Lando
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