Il messaggio nella
bottiglia
(Titolo originale: Flaskepost fra
P)
di Jussi Adler- Olsen
Marsilio Editore, 2013
pp. 557
pp. 557
Generalmente, se si pensa a
thriller e spy- story si pensa alla cultura americana. Anni di telefilm e
romanzi sfornati a getto continuo ci hanno assuefatto a vedere sulle coste dei
libri “gialli” solo cognomi anglofoni. Il giro di boa è avvenuto nel 2005, 2007
per l’Italia, quando vennero pubblicati i romanzi di Stieg Larsson, autore
scandinavo prematuramente scomparso. Stiamo parlando della famossima trilogia Millenium
con i romanzi “Uomini che odiano le donne”, “La ragazza che giocava con il
fuoco” e “La regina dei castelli di carta”. Da quel momento, il monopolio
americano ha subito una battuta d’arresto per far posto, sugli scaffali, a
cognomi con “ø” nel mezzo. Oltre a questo cambiamento nella fonetica dei nomi,
si è inaugurato un periodo di thriller e storie su serial killer che hanno
perso la brutalità e il sangue dei loro cugini americani e ne hanno guadagnato
in psicologia.
Nei sotterranei del dipartimento
di polizia di Copenaghen, in corridoi e stanze non ancora bonificate dalle
coperture in amianto, si annida la sezione Q. Si occupa dei cold cases, casi del passato rimasti
irrisolti e che ritornano a galla, di tanto in tanto. A capo della sezione c’è
Carl Mørck, detective finito in quel “dimenticatoio” dopo uno scontro a fuoco
dalle dubbie dinamiche ed è assistito dal giovane e brillante Assad e dalla
volubile Rose.
Un giorno, sulle loro scrivanie
arriva un reperto proveniente dalla Scozia, ma che potrebbe giungerebbe
benissimo da una ballata o da qualche avventura piratesca: una bottiglia con
dentro un messaggio vergato con il sangue. Le poche e rovinate righe fanno
emergere una disperato ed agghiacciante richiesta di aiuto. Due ragazzi sono
stati rapiti e sono tenuti prigionieri. Il messaggio porta la data del 1996.
Saranno ancora vivi? Il rapitore è stato preso? Oppure la storia è stata
dimenticata e quel mostro continua ad agire?
È difficile poter recensire un thriller
fornendo gli elementi necessari alla comprensione, ma non svelando troppo della
trama per non eliminare il brivido della scoperta. Seguirà una lunga “ellissi
recensiva” che spero almeno faccia nascere un po’ di curiosità.
Di un thriller poliziesco ci si
aspetterebbe che la parte da leone sia fatta dalla trama. Una storia
d’investigazione non è tale se non ci sono colpi di scena o indizi su cui far
arrovellare anche il lettore. Invece, qui la parte più sugosa è costituita dai
personaggi. La sezione Q è popolata da individui che compongono un variegato
caravanserraglio, quasi una corte dei miracoli di eccentricità.
Partiamo dal capo della sezione,
Carl Mørck. Leggendo di lui non ho potuto fare a meno di immaginarlo come un
ibrido tra il tenente Colombo e l’ispettore Callaghan. E’ un poliziotto in
gamba, intuitivo ed intelligente, ma refrattario alle regole, un po’ burbero e
diffidente verso il genere femminile (complice anche l’allucinante ex moglie
che si ritrova). Ha un passato non del tutto limpido: una strana storia che lo
vede coinvolto in una sparatoria nella quale, si insinua, si sia fatto scudo
con il collega, ora paralizzato, che vive a casa sua. Questa macchia, unita al
suo brutto carattere, gli nega la possibilità di riuscire a fare carriera nonostante
le sue indubbie capacità. Il cliché dell’eroe poliziotto degli ultimi decenni.
Con i suoi collaboratori, le cose
si fanno molto più interessanti. Assad è un giovane siriano che, non si sa bene
per quali traversie o vicende, sia finito nella sezione più sperduta della
polizia della capitale danese. Le sue “eccentricità” come quella di avere il
tappetino per le preghiere in ufficio o le storpiature che inevitabilmente fa
con la lingua danese lo rendono molto accattivante, forse la migliore figura della
storia. Anche lui ha un passato misterioso: non si sa bene dove vivano lui e la
sua famiglia, visto che ha fornito un indirizzo fittizio anche ai suoi datori
di lavoro, riceve strane telefonate via Skype dalla Siria nonostante affermi
che tutta la sua famiglia sia morta. Ci si aspetterebbero delle rivelazioni sul
suo conto prima della fine della storia, ma, evidentemente, sono previsti altri
volumi con le avventure della sezione Q.
L’ultimo componente del gruppo è Rose,
una segretaria-tutto fare senza una ben determinata qualifica. Si presenta
all’inizio con smalto nero per le unghie e carattere scontroso, in un calco
della Lisbeth Salander della trilogia di Millenium, ma molto presto abbandona
il lavoro per essere sostituita dalla sorella gemella Yrsa, tutta boccoli, colori
pastello e carattere espansivo. Il fatto che nessuno abbia mai visto le due
sorelle insieme fa pensare che, in realtà, Rose e Yrsa siano la stessa persona
affetta da una sorta di doppia personalità. Verrebbe da chiedersi, con una punta
di ironia, comesia possibile un tale avvicendamento di personale all’interno di
un commissariato di polizia.
Esterno e parallelo c’è,
naturalmente, il cattivo, il rapitore e assassino. Non si riesce veramente mai
a conoscere, nonostante lo svisceramento della sua travagliata infanzia e la
rigida educazione religiosa. Non se ne viene mai a sapere il nome, per quanto
lui sia una delle voci narranti della vicenda.
La storia è suggestiva, inutile
negarlo. La presenza di questo messaggio nella bottiglia, che finisce prima in
Scozia, poi viene dimenticato e per anni e infine approda sulle scrivanie di
Copenaghen garantisce un inizio pieno di mistero e intrigo. Il romanzo si
alterna, come i precedenti della saga della sezione Q, su due binari: da un
lato, Mørck e la sua squadra che si arrovellano sul mistero della bottiglia,
dall’altro la vita e il passato del rapitore e assassino dei due ragazzi. I due
binari narrativi si avvicinano sempre di più fino a convergere nell’inevitabile
e drammatico finale.
Gli autori di questa branca della
letteratura del nord Europa si concentrano molto sulla psicologia dei
personaggi, facendo capire che anche il “cattivo” in realtà è solo il frutto di
abusi e repressioni vissuti in prima persona. Nessuno nasce con il marchio di Caino
sulla fronte, ma sono le situazioni a creare i mostri. E, quasi, si sente
compassione anche per uno spietato rapitore.
Jussa Adler- Olsen ha combinato
con sapienza elementi della classica letteratura thriller integrandoli con una
psicologia approfondita ed una splendida caratterizzazione dell’ambiente anche
se, per noi, molti riferimenti alla cultura e alla politica danese restano
abbastanza ostici.
Un nuovo modo di leggere di
efferati delitti senza cadere nella banalità.
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