La scuola volgeva ormai
al termine e, durante un'ora di supplenza, ho provocatoriamente
domandato ai miei alunni di un terzo anno di liceo classico che idea
si fossero fatti loro della letteratura. Da nove mesi, questi alunni
avevano visto declinare il termine con aggettivi di nazionalità
(italiana, latina, greca, inglese) dal forte sapore categorizzante.
La classe aveva a disposizione, sia pure ben coordinati tra di loro,
quattro distinti percorsi storico-culturali (e tre diversi
professori) dai quali potere attingere: opportunità che, certo, non
è riproducibile in altri indirizzi scolastici. Nell'àmbito di un
consiglio di classe molto coeso e operativo, abbiamo sempre studiato
– e messo in atto con relativa facilità – le strategie per
sottolineare proprio l'aspetto dinamico, contro ogni schema e
cristallizzazione indebita. Sia i percorsi storicamente conclusi
(quelli delle cosiddette “lingue morte”), sia quelli "moderni"
sono stati affrontati in chiave di sviluppo,
puntando sulla continuità interna per avviare a quella esterna e
reciproca dei saperi.
Non si nasconderanno,
dunque, lo stupore e il disincanto, quando dai ragazzi (pur accesi
dall'insperato armistizio rispetto alle verifiche di fine anno) è
venuta fuori una risposta univoca nel senso, sia pure articolata (e
talvolta perfino creativa) nei modi: quella di una storia letteraria
come elenco – ora di autori, ora di opere – di cose da sapere,
da ricordare, da tramandare (evviva l'improvvisa
dimestichezza col gerundivo!). Cose,
sostituente notazionale che scongiura la necessità di dare un senso
e un valore a ciò che si sta affrontando. Più o meno interessanti o
facili, ma cose, al
plurale; cose che qualcuno – non importa né chi, né come, né
perché – si è dato la pena di raccogliere e che ora tocca a loro
mettere in ordine, cercando di non essere troppo coinvolti in queste
stranissime operazioni. In classe, abbiamo trovato maggiore
agio nel discriminare il termine 'catalogo' rispetto a quello di
'inventario' che non nel salto dal discreto al continuo. Perché
l'elemento caratterizzante della disciplina scolastica per i ragazzi
è quello di elenchi di nomi, dati, fatti, suddivisi al più in
pacchetti con delle etichette sopra. Cose
alle quali i ragazzi ammettono di non essere interessati, pur
apprezzandole, talvolta, sinceramente, perché “la vita va altrove”. Se riuscissimo a far capire loro quanto radicata nella
storia della letteratura una simile affermazione, e quanto la
differenza delle risposte in merito tra epoche e culture sia
significativa ed essenziale per fare chiarezza in sé, saremmo già a
ottimo punto.
Capita anche il caso di
alunni molto bravi nell'arte di presentare contenuti o, addirittura,
di penetrare i problemi, tanto sul piano culturale, quanto su quello
esistenziale. Eppure, madamina,
proprio uno di questi ragazzi ha difeso con una certa tenacia
l'ipotesi del catalogo, quasi contraddicendo la sua indubbia
sensibilità. Anzi, la cosa che più mi ha colpito in
quest'esperimento è stata proprio la sicurezza con cui la classe ha
reagito alla domanda, dopo l'iniziale sconcerto. Voglio dire: i ragazzi hanno
stentato a definire la storia letteraria solo per via della loro
imperizia linguistica e per la desuetudine nell'affrontare di petto
in gruppo un problema diverso dalla scelta di una pizzeria o di un film, ma le
idee erano chiarissime per tutti. E, insieme alle cose,
viene confermato il pregiudizio – paradossalmente
contraddittorio – per cui la letteratura è
la storia letteraria, ovvero: per molti giovani (e non giovani),
l'unica esperienza possibile della letteratura è un tipo di studio
che se ne fa a scuola, che consiste nell'organizzare nomi su una
linea del tempo che fa presto a svanire. Tale studio può anche
essere condotto con scrupolo e adolescenziale (dunque forte)
passione, ma rimane episodio confinato ai
doveri e alle occasioni nelle
quali valga la pena sfoggiare un po' di "cultura
generale".
La
scuola è responsabile di un incontro che, ad andar bene, nell'80%
dei casi non ha seguito fuori dalle aule e io credo che, senza la
consapevolezza di questo presupposto, ogni insegnamento letterario
sia destinato a fallire. Ciò qualifica, certo, l'importanza del
momento formativo proprio per la sua unicità, ma intanto scoraggia
rispetto alla penetrazione che ci si auspica di certe esperienze,
idee e capacità argomentative al di fuori dei testi che le
veicolano, quindi deve spingere noi insegnanti a formulare un quadro
quanto più possibile ampio e variegato di approcci alla conoscenza
letteraria, che si basi innanzitutto con un incontro personale con i
testi. D'altra parte, non si può leggere che una selezione ridotta –
per non dire ridicola – di opere e questo impianto conologico,
tematico, concettuale nel quale innestarle deve essere organico e ben
progettato a monte, per evitare che si confini la panoramica storica
alle cesure, ai momenti che – per ragioni ben note a tutti – non
vengono affrontati attraverso opere o/e autori. Voglio dire, per
esorcizzare l'eventualità di una storia come esperienza chiusa,
giustificata dal confine dei paesi e delle discipline tra di loro, ma
soprattutto come riassunto di ciò che non si conosce e non si
affronterà mai, come terra di niente e di nessuno.
I
ragazzi associano spesso la letteratura a questo suo "negativo"
che finisce con il sostituirla. Né lo svogliato piluccare di dati da
tralci laschi, né il fiacco addobbo su rachitiche linee del tempo
con qualche avvenimento cambiano la natura del problema: per
noi insegnanti, si
tratta di far coesistere il testo e la sua storia. La filigrana che
contribuisce a spiegare la figura di Petrarca e magari lo congiunge
con l'episodio del Canzoniere
di Saba è forse un obiettivo troppo complesso per attendersi un
riscontro immediato degli alunni, anche di quelli dal più vivace
spirito critico, ma
identificare un genere, una tendenza, un asse “comportamentale”
di alcuni scrittori rispetto all'evento letterario è determinante.
Evitando di irrigidire tale ossatura in nuovi preconcetti,
l'obiettivo è quello di creare una sensibilità artistica e di
aiutare i ragazzi a individuare delle scelte che prescindono dalla
mera evidenza biografica (rispetto
ai pochi dati in loro possesso),
ma sono
incisivi e pregnanti, anzi addirittura fondano
a loro volta un'esistenza.
Nei
limiti del possibile, la scuola dovrebbe orientare
il suo
lavoro nel senso di un contributo a formare il lettore
di domani: il lettore come risultato, o
anche solo come capacità, come apertura al mondo, soprattutto non
come premessa inverosimile nella didattica della storia letteraria:
fatte
salve rarissime eccezioni – che non possono in nessun caso
indirizzare l'impianto formativo – i ragazzi non arrivano mai in
classe come lettori,
al più come persone che qualche volta, o magari anche spesso, hanno
letto dei libri.
Il
problema, dunque, che qui non si può affrontare, è definire le
caratteristiche di questa persona che si definisce un “lettore”:
e se non si può affrontare qui è perché si tratta di un problema
sociale di cui la scuola paga solo le conseguenze. Oggi si legge
moltissimo, si dice, e il problema non consiste tanto se si tratti
della pagina di Wikipedia o delle poesie di Rilke, quanto nel
distinguo tra strumento rapido di accesso a delle informazioni o per
un gusto meno immediato e più urgente sul piano esistenziale. Senza
arrivare alle ambiziose formule crociane (e vociane), il saper
leggere
deve essere una formula che abbia una sua concreta e nobile ricaduta
in un'apertura benefica verso un particolare codice comunicativo.
Il
problema che invece in sede scolastica deve essere concretamente
affrontato è quello di bilanciare letteratura come esperienza e
storia letteraria come sintesi pret-à-porter (perché
è inutile e insensato negare l'esigenza di schemi e scheletri
orientativi). Da professore, infatti, rimane un risultato di povertà
per me inaccettabile il fatto che i ragazzi inizino
contemporaneamente fino a quattro storie letterarie e che dopo nove
mesi si abbarbichino ancora convinti su idee tanto generiche e di
palese inadeguatezza come quella del catalogo, senza aver tratto
profitto dal dialogo in classe, ovvero da ciò che – tra l'altro –
i classici stessi hanno detto loro. Come
la letteratura, il racconto che la restituisce alle nuove
generazioni è un panorama, ovvero un testo, che va costruito volta
per volta. Non si può
sostenere che degli adolescenti vengano esposti (nella migliore delle
ipotesi) a una tale convergenza di discorsi (circa tredici ore
settimanali, senza considerare la storia e la filosofia) e rimangano
immutati o addirittura indifferenti di fronte all'assedio culturale
subito; anzi, considerati
tali esiti come presupposto,
non si giustifica neanche lo spreco del pallido pacchetto
umanistico di cinque ore che offrono gli istituti tecnici.
È
criminale usare il tempo per ingozzare i ragazzi di informazioni
subito verificabili con batterie di test (strategia usata in molte
scuole), almeno quanto è improponibile rinunciare ai dati in nome di
un dialogo effimero, cervellotico ed esangue; d'altra parte, non ha
ragione di essere portato avanti un discorso che non consenta ai
ragazzi di confrontarsi sui significati e sulle idee e di mettersi in
gioco personalmente. Fermo
restando che ogni soluzione è personale e nasce dal dialogo concreto
che si instaura in classe (per cui ci sono strategie che con un
docente funzionano e con un altro no, senza
contare che in questa classe qualcosa di sbagliato devo pur averlo
fatto), io trovo molto utile
umanizzare gli agenti comunicativi (chi scrive?, a chi?, perché?,
quando?, e soprattutto: cosa dice?,
come glielo dice?)
in modo da creare una rete di relazioni che possano essere più
attuali e verificabili per
i ragazzi, anche
nella loro esperienza quotidiana. Naturalmente, tutto ciò presuppone
a fianco, se non alla base, un dialogo costante, un dibattito
sull'uso vivo e corrente della lingua e una progressiva abitudine
alla consapevolezza
del proprio operato. Una scuola che non punti ad aiutare i ragazzi
nel passaggio da “sto facendo i compiti” a “sto affrontando
questo argomento” o ancora meglio “questo problema” non è una
scuola dell'istruzione vs.
una
scuola dell'educazione, è semplicemente una scuola che non ha
ragione di essere frequentata rispetto ad altri contesti nei quali si
acquisisce qualità essenziali come disciplina ed esattezza nelle
mansioni lavorative di cui si è responsabili.
Purtroppo
non seguirò oltre il cammino di questa classe. Quello che mi auguro
per questi e per tutti i ragazzi, è che la scuola - e lo studio
letterario in particolare - educhi al coinvolgimento rispetto al
vissuto proprio e altrui. In questo senso, potrebbe forse più facile
e produttivo per noi docenti capovolgere la domanda iniziale, secondo un
modello e un cruccio che nella storia letteraria è costante: non
cosa sia la letteratura sia per i ragazzi, ma cosa sono le nuove
generazioni nella letteratura, quali idee di futuro si sono offerte
nel corso del tempo e con quale idea rispondiamo noi oggi.