L'Italia di Enrico VII in un romanzo


Lo splendore dell’aquila nell’oro.
L’Italia di Enrico VII di Lussemburgo
di Marco Tornar

Tabula Fati, 2013


Ecco che cos’è un imperatore, tenerissima madre, e perché per sempre, i cuori delle sue aquile non saranno mai neri. Però solo Gesù può rimettere i nostri peccati, non possiamo farlo noi stessi. Io l’Antifazione, ho perdonato parecchi guelfi anche alcuni falsi ghibellini qui in Italia. Ho ridato loro libertà, dopo che venivano catturati. Ma a causa di quel che è accaduto a Milano, Lodi, Cremona, soprattutto a Brescia, ho fatto proprio lo sguardo di quel soldato tedesco. Vedo coi suoi occhi ciò che mi circonda nella terra, e inorridisco.[1]

Il volume di Marco Tornar, attingendo da preziose fonti storiche, intende recuperare e ridare luce alla figura di Enrico VII di Lussemburgo, Imperatore e re d’Italia a cui la memoria storica sembra non aver dato finora nessun rilievo particolare. L’autore ricostruisce una biografia del personaggio arricchendola di particolari e aneddoti che danno una resa, sul piano della narrazione assai convincente. Eletto nel 1308 re di Germania e successivamente nel 1310 incoronato da papa Clemente V Imperatore, Enrico VII di Lussemburgo viene celebrato da Dante che lo colloca in Paradiso; il celebre guelfo bianco ripone in Enrico VII molte speranze e gli dona l’appellativo di nuovo Mosè perché crede che egli possa rappresentare finalmente un tramite fondamentale per l’equilibrio politico, in un periodo medievale assai segnato da controversie. Il sovrano infatti si dichiara favorevole al ripristino di un equilibrio tra potere temporale e potere spirituale.
    Purtroppo, all’indomani della sua elezione, numerosi sono i disordini scoppiati in varie città d’Italia: Milano è la prima sede di questi scontri a cui seguiranno altre città: Parma, Asti, Vercelli, Padova e altri luoghi del Veneto fino Pavia, Cremona, Brescia,  Pisa e Firenze citate ampiamente nel romanzo.
Sarà proprio il capoluogo toscano ad essere il crocevia di alleanze antimperiali con il papa, ormai rifugiatosi ad Avignone. Dante offeso da questo atteggiamento, invierà un’epistola durissima condannando acremente l’atteggiamento del popolo fiorentino contro l’Imperatore. Questa la realtà storica.
   Il romanzo di Marco Tornar è costruito attraverso un dialogo a più voci: nel primo capitolo, il narratore interno, partendo da una descrizione della città di Firenze ritratta nel 1312, assai particolareggiata e in cui confluiscono dettagli minuziosi (dai vessilli innalzati sul frontone di San Salvi, alle finestre spioventi, alla distesa di campanili, tetti e torri) unisce poi una sapiente narrazione romanzata rievocando i due anni precedenti l’incoronazione del re. Chi sono i nobili che ruotano attorno alla vita di Enrico VII? Di chi l’imperatore si può e si deve fidare? I baroni di Milano, Tebaldo, il conte di Savoia, Guido e Roberto di Napoli, gli Orsini e i Colonna che stringono alleanze politiche e cacciano gli Imperiali dal Campidoglio, le aristocrazie di Germania, Lussemburgo e Fiandra, il cardinale Niccolò da Prato? E tra i fidati che ruolo hanno fra Bernardino, il fido domenicano Niccolò, la bella Beatrice al castello di Lussemburgo, Albertino Mussato, Margherita, Baldovino e Tomàs? Traspaiono, tra le file della narrazione, i numerosi dubbi e a tratti anche le angosce dell’Imperatore che si interroga spesso sul proprio futuro.
     Le delusioni e le umiliazioni subite da Enrico VII occupano vari spazi narrativi nel romanzo: ad esempio, l’avvenuta incoronazione a Roma, seguita dall’enciclica emanata nelle tre forme – maggiore, minore o terza - ai monarchi di Francia, Inghilterra, Aragona e Cipro, sarà per l'Imperatore, motivo di grande amarezza e sconforto.
     Bellissime e intense le missive alla madre amatissima e ad altri compagni che chiudono vari capitoli. Un rilievo particolare assume il ruolo che lo scrittore attribuisce al rapporto tra Enrico VII e Dante Alighieri: l’imperatore è attratto dalla personalità dell’Alighieri; la narrazione è ricca di momenti che rinviano a reminiscenze dantesche, come si evince dal passo seguente, in cui l’oggetto del dialogo tra Enrico VII e Tomàs è la contiguità umana con  Dante Alighieri :

Sul fulgore della luna piena striature di vapori grigi e color del camoscio eclissano a tratti il disco lunare. Non un’anima viva nelle strade di Pisa, solo case alte e desolate che sembrano fissare nel gelido chiarore. Tomàs non sa perché, ma invece di salire direttamente nella sua camera – come tutte le notti dopo la  breve passeggiata – è passato per la corte interna del palazzo di Donoratico: e inaspettatamente lo ha trovato lì, solo,  in piedi e avvolto in un mantello, gli occhi a contemplare le stelle. Malgrado il buio fitto non ha potuto non riconoscere subito quel mantello rosso con intessute aquile d’oro – messo in risalto dai riflessi delle torce sugli spalti – la sua sagoma non alta e la linea delle proporzioni che si direbbe nervosa.
«È Venere quella?» sente chiedere mentre s’avvicina.
«No è già tramontata» risponde senza alzare a sua volta lo sguardo «È Vega».
«Mi fa pensare sempre a Dantes».
Conosce bene il cielo notturno il ciambellano, ma a quel nome scuote la testa perché non capisce.
«Dantes» ripete l’altro «Alagherii».[2]

 Quel fiorentino «esule senza colpa da un decennio e condannato in contumacia dalla sua città alla morte per rogo»,[3] accresce in lui la consapevolezza di un destino, a tratti infelice che lo accomuna. È lo stesso Dante ad avergli inviato una missiva in cui gli spiegava che era stato felice di assistere alla sua incoronazione, ma nella stessa lettera aveva deprecato la sua Firenze dove esalavano «i fumi del vizio e le “pecore” vicine si contaminavano a volontà»;[4] una corrispondenza epistolare in cui Enrico VII trova più di una conferma riguardo l’ambiente politico, papale e cittadino ostile che si stava creando a poco a poco attorno a lui: «i cittadini tramano affinché papa Clemente cambi idea e patteggi assieme ad un re estraneo a loro»,[5]denunce su cui Enrico riflette nelle tenebre della propria anima, o nell’«arcano inchiostro della notte»,[6] nel tentativo di sconfiggere il senso della sconfitta del fallimento che annullava tutte le speranze della vita, tra queste in particolare, la stessa fede riguardo l’Impero che pian piano svanisce accompagnata da un senso di minaccia che l’Imperatore respira in ogni momento.   
     Le dispute interne alla città di Pisa, il mancato soccorso alla lega guelfa, occupano quasi interamente il terzo capitolo, mentre il finale si snoda in un susseguirsi concitato; negli ultimi accadimenti che precedono la morte dell’Imperatore, il lettore può comprendere l’esatta caratura morale, religiosa e umana della vita di Enrico VII di Lussemburgo.
    Un racconto degno di attenzione, costruito con una scrittura densa di metafore e di artifici retorico-stilistici che impreziosiscono la narrazione.
Un bel romanzo che si legge con scorrevolezza e che a tratti rimanda alla narrazione dello scrittore inglese Conn Iggulden in La caduta dell’aquila [7]: anche qui la figura di un grande della nostra storia Cesare, è indagato su più fronti, sia nella veste di eroe nazionale ma anche il romanzo storico analizza il possibile ruolo di Cesare osservato come “traditore” della patria.
      Destini stranamente ambigui per uomini che hanno invece lasciato un segno indelebile nella nostra storia: anni intensi, a tratti dolorosi, segnati, per Enrico VII, dalle battaglie tra guelfi e ghibellini e da un epilogo storico che non rende, ad entrambi i protagonisti, giustizia.





[1] M. TORNAR, Lo splendore dell’aquila nell’oro, L’Italia di Enrico VII di Lussemburgo, Chieti, Tabula Fati, 2013, pp. 27-28.
[2] Ivi, p. 88.
[3] Ivi, pp. 44-45
[4] Ivi, p. 46.
[5] Ivi, p. 47.
[6] Ivi, p. 58.
[7] C. IGGULDEN, La caduta dell’aquila, Alessandria, Piemme Voci, 2007.