Marco
Campogiani
Edizioni
Anordest 2013
pp. 335
€ 12,90
“Quando noi eravamo Noi, e il mondo se ne stava fuori, tutto era leggero, e come scivoloso, mentre ora non riesco a muovere un passo.” (pag 294)
Alla
fine, sono ancora Babi e Step, alla fine è ancora “un’altra storia d’amore”. E
tuttavia…
“Smalltown boy”, di Marco Campogiani,
finalista al XXVI premio Calvino, s’inquadra sì nel filone dell’amore giovanilistico
ma, soprattutto, in quello della ricerca dell’identità sessuale, adesso tanto in voga. Lo fa con un attacco lieve, quasi
tragicomico, come fossimo, appunto, ancora “tre metri sopra il cielo”, poi,
però, va in crescendo verso lo scavo interiore, verso l’accettazione dell’ineluttabile,
verso la sofferenza, verso l’essere costretto a misurarsi con il metro della
cosiddetta normalità, con “l’altro da sé”.
Davide
Guizzardo s’innamora a quattordici anni con una profondità, con un’assolutezza drammatica,
superiore alla sua età, e il suo è un amore tragico come quello di Romeo. Ma l’anima
gemella non è Giulietta, bensì Guido, l’amico con cui è solito giocare a calcio
e parlare di ragazze. Guido è bello, forte, atletico, è il campione che tutte
vogliono. Guido è omosessuale, Guido ha una gemella, Martina, considerata da
tutti stramba, dark, solitaria. Anche
Martina è omosessuale e ama Cristina che tutti credono la ragazza di Guido. Per
stare insieme, Davide e Guido, Martina e Cristina, dovranno fingere di uniformarsi,
diventare agli occhi del mondo ciò che la società richiede. “Essere. Come. Gli.
Altri.”
Nascerà
così una commedia degli equivoci, un intreccio strano fra i quattro ragazzi,
dove Davide farà finta di stare con Martina, mentre Guido darà a vedere di
essere il ragazzo di Cristina. In realtà, le coppie vere saranno omo e non
etero.
Come
dicevamo, la storia parte con tono leggero, all’inizio l’omosessualità è solo un’evenienza,
un’esplorazione nell’ambito di un’età confusa, della quale si saggiano tutte le
potenzialità. Davide, Guido, Martina
provano a essere come tutti, testano le sensazioni del loro corpo e le emozioni
del loro cuore a contatto con l’altro sesso, ma l’amore ha un sopravvento vitale, giocoso.
I ragazzi accettano ciò che non possono più nascondere o rifiutare, vivono in
una bolla isolata dal resto del mondo, creano un loro spazio alternativo, un
giardino segreto dove coltivano la loro personale felicità. “Dio quanto siamo belli, mi pare.” (pag
197)
Ma questa loro bellezza esteriore ed interiore
non è capita, deve essere negata.
“Cos’altro potrei raccontare al Capitano dei Carabinieri? Sarebbe lungo spiegargli il Mondo Parallelo delle “regole Speciali”. O la teoria dei Nostri Momenti. Cosa capirebbe? Niente. Perché quello in cui vive lui è un mondo diverso, che non ci appartiene: il mondo dell’Ordine.” (pag 196)
Inevitabilmente,
questi giovani puri e felici dovranno scontrarsi con il perbenismo, con la
società, con la famiglia, con la scuola, con la Chiesa, che li vogliono come
non sono, che pretendono di cambiarli anche se non fanno niente di male, anche
se sono bravi ragazzi studiosi. Perché Davide, Guido e Martina non sono
soltanto la loro omosessualità ma anche giovani qualsiasi, che scandiscono la vita
a suon di pizze e musica anni ottanta. Le canzoni fanno da colonna sonora a
tutto il romanzo e ritmano i capitoli (e anche questo, ultimamente, sta diventando un cliché della
narrativa.)
“Chi decide cosa è in ordine e cosa no?” (pag 196)
L’irrompere
dell’Ordine, in quello che solo dall’esterno sembra Disordine senza esserlo, porterà
a rotture, a lacerazioni, a dolorose separazioni che distruggono l’energia del
protagonista, che lo “reificano”, che lo trasformano in un automa capace solo di
provare nostalgia, perdita, solitudine. Il dramma di Davide è narrato con un
tono semplice e penetrante insieme, dove il dolore è ancora più intenso perché
ipertrattenuto.
“Mi alzo, colazione, scuola, rispondo persino quando mia madre mi chiede qualcosa, ma è come se non fossi io, è come se avessi premuto il tasto rosso del telecomando e ora fossi in standby.” (pag 294)
Se
le atmosfere, ripetiamo, possono essere ascritte ad un clima che ricorda Moccia
o persino le canzoni della Pausini, lo scavo interiore è, però, lucido e
tagliente nella sua elementarità, la lingua scabra e studiata. I dialoghi sentono
gli effetti del vissuto da sceneggiatore di Campogiani, sono avvincenti,
realistici, fin troppo perfettini per un protagonista ragazzino, al punto che è
lo scrittore stesso, a volte, ad auto criticarsi: “Potevi dire qualcosa di più originale Guido: ‘Ho sbagliato, non voglio
perderti…’ Sei… sdolcinato. Sei finto.” (pag 253) Peculiare l’abitudine di
zoomare dalla terza persona alla seconda, per avvicinarsi al personaggio, per
dialogarci.
Concludiamo
dicendo che nel testo è presente anche una forte componente di denuncia dell’omofobia,
sebbene sfumata, addomesticata. Dopo la presa di coscienza si giunge al rifiuto
dei pregiudizi, delle categorizzazioni, delle etichettature.
“Non ho mai conosciuto la vita di un camionista. Non ho mai parlato d’amore con un camionista. E d’un tratto mi rendo conto di una cosa magari semplice, ma la voglio dire. Non esistono “i camionisti”. Esistono degli uomini, delle persone che fanno i camionisti. Semplice no? Ma non ci avevo ancora mai pensato. S’imparano un sacco di cose, viaggiando.” (pag 327)
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