Fuera del juego
Heberto
Padilla
Traduzione
di Gordiano Lupi
Edizioni Il
Foglio
pp 157
12,00
“The knock at our door came around seven in the morning.” Così
Cuza Malè racconta il momento dell’arresto del marito, il poeta cubano, di
lingua castigliana, Heberto Padilla.
Dopo
che, nel 1968, la raccolta di poesie “Fuera
del juego”, di Padilla, vinse il
premio UNEAC, il libro venne considerato controrivoluzionario e pubblicato con
un’appendice che ne stigmatizzava il contenuto come anticastrista. Padilla fu
arrestato nel 1971 e, per riottenere la libertà, fu costretto ad apparire davanti al collegio
degli scrittori e fare pubblica abiura di se stesso, dei suoi scritti,
“confessando” supposti crimini suoi e della moglie contro la Rivoluzione. Così
si esprimeva Padilla riguardo alla sua “autocritica”:
“Il procedimento è stato ideato da Lenin per recuperare i rivoluzionari nelle file del partito comunista e perfezionato da Stalin come strumento per distruggere moralmente chi esprimeva posizioni critiche . Ho accettato di recitare l’autocritica per ottenere la libertà e per poter lasciare Cuba, che ormai era diventata una prigione.”
Molte
personalità, fra le quali Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Susan Sontag,
Mario Vargas Llosa, Federico Fellini, Alberto Moravia – con alcune eccezioni illustri come Gabriel
Garcia Marquez - firmarono una petizione per chiederne la liberazione. L’affare Padilla segnò la fine del sostegno degli
intellettuali di sinistra alla Rivoluzione Cubana, che aveva perso i suoi
connotati libertari per trasformarsi in un regime autoritario, castrista e
castrante.
I
versi di Padilla sono semplici, discorsivi ma solo in apparenza. Parlano di cose
concrete, di vita di tutti i giorni, dell’irruzione della storia e della
politica nel privato del cittadino che vorrebbe prescinderne ma non può.
“Sono sempre stato fuori dal gioco, forse è la condizione di poeta che non permette di stare dentro, per noi non è possibile, siamo destinati a raccontare una spiacevole verità in faccia al tiranno. Un poeta è bene non averlo intorno, è un triste personaggio che trova sempre da ridire, che non è mai contento, soprattutto non serve al potere.”
Come
dice il traduttore (ed editore) Gordiano Lupi, “Padilla non è un dissidente ma un rivoluzionario che vuole continuare a
pensare con la propria testa.”
“Fuera
del juego” “è un canto di libertà”, “il
simbolo della disillusione rivoluzionaria” (sempre Lupi).
Padilla
è stato parte sogno, vi ha creduto ma ha visto naufragare le aspettative di un
mondo migliore, ha capito che quella che vedeva in atto non era più la “sua”
rivoluzione, ha scritto versi “che fanno male al sogno”, che denunciano la
violenza dietro la speranza diffusa dagli eroi.
Intorno agli eroi
Gli eroi
Sempre vengono attesi
Perché sono clandestini
E sconvolgono l’ordine
delle cose.
Appaiono un giorno
Affaticati e rauchi
Nei carri da guerra,
coperti dalla polvere del cammino,
facendo rumore con gli
stivali.
Gli eroi non dialogano,
ma progettano con emozione
la vita affascinante del
domani.
Gli eroi ci dirigono
E ci pongono davanti allo
stupore del mondo.
Ci concedono perfino
La loro parte di Immortali.
Lottano
Con la nostra solitudine
E i nostri vituperi.
Modificano a loro modo il
terrore.
E alla fine ci impongono
La violenta speranza.
La sua “colpa” è stata
“Non dare ascolto a chi diceva che esistono
libri da non scrivere e soprattutto da non pubblicare, perché fanno male al
sogno e soltanto dentro la rivoluzione può esserci libertà, ma per chi si
chiama fuori non esistono diritti.”
I poeti cubani non sognano
più
I poeti cubani non sognano
più
(neppure di notte)
Vanno a chiudere la porta
per scrivere in solitudine
Quando scricchiola, all'improvviso,
il legno:
il vento li spinge alla
deriva;
alcune mani li prendono per
le spalle,
li rovesciano
li mettono di fronte ad
altre facce
(affondate nei pantani,
bruciando nel napalm)
e il mondo sopra le loro bocche
scorre
e l’occhio è obbligato a
vedere, a vedere, a vedere
“Fuera del juego” è anche un inno d’amore alla
patria, a Cuba, sempre portata nel cuore. “Cuba
è la mia terra, la mia isola calda e selvaggia.” “Ho sempre vissuto a Cuba anche quando partivo.”
Sempre ho vissuto a Cuba
Io vivo a Cuba. Sempre
Ho vissuto a Cuba. Codesti anni
di vagare
Per il mondo dei quali
tanto hanno parlato ,
sono mie menzogne, mie
falsificazioni.
Perché io sempre sono stato
a Cuba.
Ed è certo
che ci furono giorni della
Rivoluzione
nei quali l’Isola sarebbe
potuta esplodere tra le onde;
però negli aeroporti
e nei luoghi dove sono
stato
sentii che mi chiamavano
con il mio nome
e quando rispondevo
io mi trovavo in questa
sponda
sudando
camminando,
in maniche di camicia,
ebbro di vento e di
fogliame,
quando il sole e il mare si
arrampicano sulle terrazze
e cantano la loro alleluia
Sopra
a tutto, aleggia un potente senso di nostalgia, più di ogni altra
considerazione umana, sociale e politica. Nostalgia che abbraccia ogni cosa: l’amore,
il sesso, la patria, il sogno rivoluzionario, il ricordo di quartieri
fatiscenti, di cartelloni slabbrati, di case diroccate eppure amate.
Il ritorno
Ti sei risvegliato almeno
mille volte
cercando la casa dove i
tuoi genitori ti proteggevano dal mal
tempo, cercando
il pozzo nero dove
ascoltavi la ressa
delle rane, le falene che
il vento faceva volare
a ogni istante.
E adesso che è impossibile
ti metti a gridare nella
stanza vuota
quando persino l’albero del
campo
canta meglio di te l’aria
degli anni perduti.
Eri già il personaggio che
osserva, il rancoroso,
preso, irrimediabile, per
quel che vedi
e domani ti sarà tanto
estraneo come oggi lo sei
a tutto quello che è
accaduto senza che fossi capace
di comprenderlo,
e il pozzo continuerà
cantando pieno di rane
e non potrai sentirle
anche se spiccano salti
davanti ai tuoi orecchi;
e non solo le falene, ma il
tuo stesso figlio
ha già cominciato a
divorarti
e adesso lo stai guardando
vestito con il tuo abito,
pisciando dietro il
cimitero, con la tua bocca,
i tuoi
occhi e tu come se niente
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