Il falò delle vanità
di Tom Wolfe
Mondadori, 2010
11€
pp. 780
Nel Bronx gira voce che il povero Henry Lamb sia morto per
una stupida ragazzata della quale non sarebbe mai stato capace se non fosse che
quel Roland Auburn l’avesse incontrato per strada, per caso, mentre andava a
mangiarsi una frittura. La gente mormora che Auburn – spacciatore di crack
vanitoso con le Reebook sempre nuove di scatola – si prenda spesso gioco del
povero Henry – un ragazzo per bene, uno che studia e vuole andare
all’Università, un ragazzo con un futuro insomma – e quel giorno incontrandolo per
strada cerca di coinvolgerlo in una rapina che però è un gioco e che si
trasforma in tragedia. Auburn gli vuole dimostrare come si fa una rapina,
magari senza rapinare nessuno, e blocca una macchina per strada, una bella
Mercedes. La situazione degenera perché il padrone dell’auto, sentendosi
aggredito gli tira addosso una ruota e poi nel fuggire urta con l’auto proprio
Henry.
Lamb non sta un granché e va all’ospedale per farsi curare.
Dice che gli fa male il polso e non racconta niente di niente, perché ha paura,
perché è stato coinvolto in una rapina. Gli curano il polso e lo mandano a
casa. Il giorno dopo è in coma e scoppia il caso Lamb che ben presto diventerà
il caso McCoy.
Sherman McCoy è uno dei Padroni dell’Universo, uno di quelli
di Wall Street, uno di quei ragazzotti impostati al successo che nemmeno
trentenni guadagnano cifre da capogiro e vivono in appartamenti da sogno. Ma
sono gente perbene, hanno moglie e una figlia piccola e a tutte e due vogliono
un bene sconfinato. Salvo qualche flirt più o meno importante con ragazze dal
buffo accento del sud, sposate con vecchi ricchi ebrei. Capita che talvolta uno
di questi flirt cambi la propria vita definitivamente. Soprattutto se si va in
giro con la propria Mercedes nel Bronx, si viene rapinati (oppure no?) e al
volante passa la giovane ragazza del sud, che un po’ spericolata investe uno
dei ragazzi. Tok.
La vita di Sherman McCoy cambia quel giorno. Ma in fondo lui
cosa ha fatto? Ha solo cercato di difendersi da quella che aveva l’aria di
essere un’aggressione. Hai lottato nella giungla, gli dice la sua ragazza del
sud. Non è stato lui ad investire il ragazzo (ma è stato realmente investito?),
ma sua era l’auto. E si sa che le auto devono avere un pilota altrimenti da
sole non fanno nulla, e non era lui quello che guidava, ma la giovane ragazza
del sud, Maria.
Mccoy scopre la realtà di quanto accaduto quel giorno solo
vedendo la tv e leggendo il giornale. I protagonisti sono il reverendo Bacon
che cavalca l’onda dei diritti dei neri, e Peter Fallow un giornalista
alcolizzato che sa osservare le cose, cogliere di qua e di là, scrivere i suoi
pezzi. Il povero Henry Lamb che intanto è in coma, viene usato un po’ da tutti
per raggiungere i propri risultati. Perché i reverendo non pensa solo ai
diritti, e il giornalista pensa soprattutto alla sua carriera, e i procuratore
Kramer pensa alla sua e pensa a far bella figura con quella meraviglia della
ragazza con il rossetto marrone. In fondo, ognuno, a modo suo, è un McCoy nel
suo campo. E, chissà com’è, tutti odiano quel McCoy, perché Wasp (si ma
esistono ancora i Wasp?), perché ricco, perché di Wall Street. Ma in fondo lui
non ha commesso nessun peccato se non quello di tradire la moglie. E di negarle
che tipo di rapporto aveva con Maria. E così tradire anche sua figlia. E poi
non confessare cosa è successo quel giorno, per paura? Per non coinvolgere
quella donna che sembra amasse (o soltanto che lo aveva inebriato?). Una
questione etica, non strettamente connessa alla vita e morte di Henry Lamb. Ma
d’un tratto, tutta la sua vita è connessa con quella del povero ragazzo nero
del Bronx.
Basta questo perché tutti in città (ovvero tutti i
protagonisti del libro) trovino il modo per affermarsi sulle spalle e le
disgrazie del ragazzo di Park Avenue?
Tom Wolfe, maestro di giornalismo, ci fa comprendere tutto
ciò che si nasconde dietro ai meccanismi dell’informazione spettacolo, nostro
pasto quotidiano. E come questa si intrecci con la politica, con i personaggi
mondani, con i loro interessi, con i centri del potere e con la gente comune.
Ci mostra come nasce la notizia, con quale cinismo a volte
viene messa insieme e portata avanti, quanta difficoltà ha il dubbio a
insinuarsi nella mente e nell’odio comune che nasce nelle strade fomentato da
chi dovrebbe difendere, portare ragione, assicurare giustizia. E come invece
questa venga tradita nella aule dei tribunali e travisata dalla stampa, per
strada, nelle case.
A chi appartiene la vanità che brucia in questo romanzo?
Certo, quella di Sherman McCoy che credeva di poter fare di tutto solo perché
poteva permettersi di comprare tutto, non rendendosi conto del caso –
nonostante la sua professione avrebbe dovuto insegnarglielo – di tutto
l’imprevedibile che lui non sarebbe stato in grado di controllare perché non ne
aveva mai tenuto conto.
E con questo fuoco si mescola la vanità di poliziotti,
politici in vista di elezioni, uomini di chiesa, arredatori e arrivisti,
giornalisti, avvocati, … e anche quando sappiamo dei loro successi, siamo
consapevoli che questo è stato solo il romanzo di Sherman McCoy e che potrebbe
seguire il loro, che potrebbe magari iniziare da un premio Pulitzer vinto grazie
a una storia falsificata.
E brucia anche la nostra vanità che giudichiamo le persone e
i fatti, basandoci sui nostri odi e sul nostro rancore.
Due momenti sono assolutamente memorabili. La morte di Mr.
Ruskin (ebreo traghettatore di arabi a La Mecca e marito di Maria) e la scena
dell’arresto di Sherman McCoy, quando entra nell’auto della polizia e ai suoi
abiti si appiccicano delle fastidiose palline di polistirolo: questa è
veramente una trovata narrativa geniale. Il romanzo: un capolavoro.