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Pillole di Autore - Tommaso Landolfi, Des mois

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Quando Vallecchi pubblica Des mois nel 1967, Landolfi è già autore di altri due diari (o pseudo tali): l'ancora narrativo LA BIERE DU PECHEUR (1953), e il "perfetto" Rien va (1963). Questo terzo diario ripropone la lingua inventata, "vampirizzata dal francese" degli altri due, polisensa, perché rimanda ora alla temporalità (se traduciamo "Dei mesi"), o alla centralità di un io sfaccettato, dalle plurime identità ("Degli io"). 

A muovere la scrittura diaristica, vi è sempre una necessaria "igiene" mentale e fisica, come precisa lo stesso Landolfi. Benché tornino temi comuni, come la discrasia tra vita e morte, il lavoro, la democrazia, il gioco d'azzardo, la famiglia, la casa e l'attività letteraria, Des mois si distingue dai precedenti per maggior distacco con cui il protagonista osserva e registra. In Rien va la rinuncia e la vanità degli sforzi innescavano una continua frustrazione; nell'ultimo diario, si ritrova maggiore disposizione alla tenerezza, e la rinuncia è accettata come inevitabile e naturale. 

Qui, Landolfi è meno autocensore rispetto a Rien va: c'è maggiore disposizione a dire, specialmente nei brani dedicati agli affetti familiari e al nuovo nato, soprannominato il Minimus (la figlia era la Minor e la moglie, la Major). Un capitolo a sé meriterebbe un'incursione tra le pagine degli affetti landolfiani; per questa domenica delle Pillole Di Autore, si preferisce un paragrafo del gennaio 1964, che racchiude la prova di quanto Landolfi rimastichi la propria scrittura, le scelte narrative e i dialoghi. Vediamo come da una metafora geometrica si apra un'incursione nelle sue strategie narrative, tra capricciose ribellioni d'autore e ricerca di chiarezza:


Ho battuto il naso contro la frasetta finale degli Sguardi (così sembra che debba chiamarsi, invece di Tangente); quando la mano per chiudere un racconto l’ho sempre, bene o male, avuta. Perché dunque l’ho battuto? Cerchiamo di capirlo.

“E Rossana?... la prima parola che mi viene alle labbra o sulla penna è “tangente”, quella linea che, venuta di lontano, tocca un cerchio in un sol punto, per un solo attimo, e fugge via per i secoli dei secoli. Ma non è buffo paragonare una donna a una tangente? E d’altra parte anche i cerchi si toccano tra loro in un sol punto: Rossana, con tutto quanto si porta dietro, sarà forse stata uno di questi cerchi chiusi. Forse ognuno lo è; forse perfino mia moglie ed io ci tocchiamo in un sol punto».
Il che, letto distrattamente, potrà anche tornare; ma non torna a me. Per cominciare, vi è qualche ambiguità: ad esempio, quel “sarà” è di futuro anteriore, o dubitativo (nel qual caso riporterebbe anzi il nesso al passato)? Ed altre incongruenze formali. Ma non è questo che mi interessa; mi interessa invece chiarire a me stesso il valore dell’immagine, e insomma sapere cosa volevo e voglio dire. Sospetto infatti di aver concesso a un certo odierno modo d’intendere; la mia soluzione cioè (quale risulta dalla frase riportata) è la più facile, è per così dire bonne à tout faire. Perbacco, accennare alla incomunicabilità dei sentimenti, alla solitudine delle creature umane eccetera, è tratto di sicuro effetto, un che di ingollato oggi senza proteste dal lettore. Sicché sarà meglio rifarsi daccapo.
Originariamente, intendevo che codesta Rossana era, per virtù di convergenza, venuta in contatto con questo cerchio chiuso (il me stesso del racconto, inchiodato alla sua condizione) senza potervi penetrare, essendone anzi respinta dalla fatalità appunto, se ci si può esprimere tanto sciaguratamente, della sua chiusezza; punto e basta. Ossia, dei cerchi ineluttabilmente chiusi ce n’era un solo: il me stesso. Beh, e poi cosa è successo? È successo, ecco, che l’immagine di tangenza, abbastanza limpida nella mia mente, si è rivelata intraducibile in parole letterarie e addirittura irrealizzabile (buffo è davvero paragonare una donna a una tangente); per cui, il pensiero lasciandosi come suole trarre dalla rappresentazione, si è venuti all’altra immagine dei cerchi, che, sebbene egualmente geometrica, sembrerebbe meno buffa ed è inoltre consacrata dall’immaginativa contemporanea.
Debbo però osservare due cose, la prima in forma di domanda. Perché diavolo mi è saltata in capo l’immagine della tangente, se non è realizzabile, o, diciamo, circostanziabile, rappresentabile? ovvero si dovrebbe assurdamente pensare che si dia un che di non apprendibile e non accoglibile dalla letteratura? La seconda cosa: durante i conati di riduzione, di ammansimento della detta immagine, a un certo punto ho pensato davvero che essa fosse incompleta o soverchiamente unilaterale, che infine si portasse forzatamente dietro l’immagine reciproca. Il dire che quella tal tangente non potesse penetrare in quel tal cerchio non veniva forse a dire implicitamente che quel tal cerchio non poteva seguirla nella sua eterna corsa, nella sua corsa senza ritorno? Con che di nuovo si tornava ai cerchi o a che.
Concludendo: o tutti gli uomini son cerchi chiusi, o solo il me stesso lo è, bisogna decidersi, non fosse che rispetto alle esigenze del racconto. Nel primo caso l’immagine adottata può passare; nel secondo… quale altra converrebbe escogitare? E questa, non sarebbe pur sempre altra dall’originaria? Badiamo bene, non è una semplice questione di scrittura: se l’immagine concreta non è chiara, significa (o Flaubert) che non è chiaro il pensiero. O viceversa, ricaro il mio Flaubert (e non è esattamente la stessa cosa).
E alla perfine, come dovrà essere quella frasetta? Vedremo o non vedremo domani… E se si rinunciasse a interpretare, a dare il senso e il succo del racconto, non sarebbe meglio? (pp. 30-32)

Pochissime ma splendide letture di approfondimento:
  • Andrea Cortellessa, Caetera desiderantur: l’autobiografismo fluido nei diari landolfiani, in Le lunazioni del cuore: saggi su Tommaso Landolfi, a cura di I. Landolfi, Firenze, La Nuova Italia, 1996, 77-106.
  • Giorgio Luti, La stagione del diario, ivi, 1-14.
E le bellissime recensioni d'autore:
  • Giorgio Manganelli, recensione a Des mois, Il Giorno, 14 giugno 1967;
  • Andrea Zanzotto, recensione alla riedizione di LA BIERE DU PECHEUR, Panorama, 2 luglio 1989.