Cosa racconteremo di
questi cazzo di anni zero è stato definito da alcuni un libro
generazionale, anche se non mi sembra se ne possa parlare legittimamente in
questi termini. Inquadrare l’opera
all’interno di un genere letterario definito non è semplice, lo stile narrativo
è complesso e la storia si sviluppa attorno alle riflessioni dell’io narrante.
Il pensiero è affidato alla parola scritta nella forma del flusso di coscienza,
già tipico del Novecento, ma rielaborato e reso più contemporaneo attraverso l’evocazione
di immagini e dettagli in una sorta di impressionismo grafico, che permette di
vedere e non solo di leggere il racconto. Mancano talvolta la coerenza
sintattica, la consecutio temporum, l’uso corretto dell’ortografia, quasi come
se tutti questi elementi combinati tra di loro volessero contribuire all’idea
di un opera nata per effetto di una
necessità personale dell’autore, che affronta con la scrittura le sue paure per
spiegarle a se stesso, più che al lettore, come se il racconto non fosse destinato
alla pubblicazione, ma a restare chiuso in un cassetto.
Seguire lo sviluppo della narrazione è difficile non solo a
causa dello stile impenetrabile, ma anche per via dei continui richiami a fatti
di vita vissuta, troppo intimi per potere essere compresi a pieno dal lettore.
In questo quindi c’è davvero poco di universale, mentre
invece si può certamente parlare di
generazionalità se si adotta un’altra chiave di lettura, incentrata
sull’analisi dello scenario che emerge in ogni pagina, desolante e senza
prospettive, fatto di disoccupazione e solitudine.
Veri protagonisti
diventano qui i paesaggi, quelli geografici e quelli mentali, che si
influenzano a vicenda. I panorami sono osservati quasi sempre attraverso
una barriera, sia essa il finestrino di un treno regionale o la finestra di un
appartamento in periferia, per evidenziare il distacco tra l’osservatore, che è
alla continua ricerca di un luogo da potere chiamare casa, e l’ambiente
circostante di cui non si sente parte. Ci sono i campi infiniti e scuri che
segnano la fisionomia della Pianura Padana - l’autore è ferrarese- le
fatiscenti zone industriali o le stazioni di servizio che diventano tappa
casuale in un costante pellegrinare da una parte all’altra dell’Italia. Tutto
questo diventa lo specchio di un’interiorità sconvolta, ma non per questo meno
lucida nell’analisi della realtà che la circonda.
In mezzo a tanto sfacelo trova posto anche una bellezza
fatta di attimi, quella data dall’amore per una donna, a volte interlocutore
dell’io narrante, alla quale è dedicata la storia. Un amore tormentato
naturalmente, ma intenso e assoluto, sincero, proprio come il racconto di
Brondi.
Edizione di riferimento: V. Brondi, Cosa racconteremo di
questi cazzo di anni zero, Baldini Castoldi Dalai editore, 2010
E Parigi probabilmente brucia, lontana anni luce da me. Poi penso che la cosa che hanno in comune le nostre case e le nostre giornate è che sono da ristrutturare. che andremo ad assaltare ancora i cieli e a farci sconfiggere volentieri.
E i cardini delle porte che per qualcuno cigolano per altri canticchiano. non ci sono più sigarette solo vestiti che puzzano di sigarette e malatissime gelosie retroattive verso che c’è stato prima di me. che mi spaccherei il setto nasale come i pugili, prima di venire a vivere con te, così puoi farmi quello che vuoi che tanto non mi succede niente e posso continuare a girarti intorno, facendo finta di colpirti e poi abbracciarti finchè l’arbitro non riesce a staccarci.
Grida tu qualcosa, come quando dai tuoi occhi traboccava il cielo. e cosa vuol dire questa cosa di darsi, di prestarsi a qualcun altro a tempo indeciso e impreciso. per poi vedere insieme le macerie del paesaggio. scambiarsi i modi di dire. farsisoffrire, non darlo a vedere. rimanercimale, che non mi vieni a vedere. Per i giorni di ferie trovare dei posti sperduti, ma tu ci sei già stata. Telefonami di notte, ti prego svegliami. Relativamente vicini e poco costosi, ma tu ci sei già stata. Degli alberghi infami che però mettono Paolo Conte appena ti svegli. prenotare per piantare le bandiere su marte, sulla tua bocca chiusa. Ma era proprietà privata. fammi guarire. fammi passare. ma fermami.
un pomeriggio con te che non c’è. sempre circondati di assenze, di persone che prendono aerei a basso costo per andarsene. In fila al bancomat, come se avessimo un pozzo di petrolio da qualche parte. che mi metti delle tristezze oceaniche e telefilmiche, mi struggi. E cosa pensava De Andrè mentre concimava la terra. E Piero Ciampi mentre pisciava nei bar di Roma in preda all’allegria e alla pensieratezza. amori in miseria. o solo ipoglicemia collettiva. In perfetta solitudine nel millenovecentonovantuno. che mi fai banalmente passare la fame, che andiamo a vedere un’alba meravigliosa da un terrazzo pieno zeppo di cose da asciugare. e settembre che fa diventare piccole le ombre. gli estintori sulle paranoie incendiarie.
Le ombre cinesi che hanno lasciato sugli schermi le tue parole, le parole che sono residui bellici. Gas nervino negli abitacoli delle automobili. che da piccola parlavi con il mare per farlo agitare. e ci viene l’alta marea negli sguardi. starai dentro di me in ergastolo. Che avevamo l’inesperienza necessaria. eravamo dei fiori insperati. ci siamo molto probabilmente rovinati e migliorati. nelle città adatte alle nostre scenate, queste città in raccoglimento, queste città in silenzio stampa. Questa città che dicevi che ti sembrava un congelatore. con la campagna circostante con i vecchi che non muoiono mai e i diciottenni che decollano sulla superstrada per il mare. E si riposano gli occhi sugli airbag in attesa dei soccorsi. Arriveranno i nostri, con gli avvoltoi che ci sorvolano tra i pusher e i computer. Le preghiere a un Dio incompetente. E tu che parli da sola. Tu che parti. per la tua sesta guerra mondiale.