di Giacomo Debenedetti
Einaudi, 2005
prefazione di Natalia Ginzburg
Giacomo Debenedetti è noto al mondo delle lettere principalmente per la sua attività di critico, ma si dedicò anche alla narrativa: tra le sue pagine, sempre tese tra il racconto e la riflessione saggistica, è utile ricordare a settant'anni esatti dagli eventi che l'hanno ispirato un libretto, 16 ottobre 1943, dedicato alla retata nazista del ghetto di Roma. Pubblicato per la prima volta nell'immediato dopoguerra nella rivista romana "Mercurio" in un numero dedicato alla Resistenza (1944), fu subito ripreso da "Libera Stampa" di Lugano e pubblicato l'anno successivo in volume (1945). Fu un grande successo, e il volumetto fu presto introvabile. Tre anni dopo Jean-Paul Sartre lo fece tradurre per per "Temps Moderns" (1947).
Ma ricordiamo i fatti: nella mattina del 16 ottobre 1943, nel giro di poche ore, i nazisti rastrellarono oltre un migliaio di ebrei, destinati alla deportazione nei lager. Ebrei, ci spiega Debenedetti, "doppiamente colpevoli" agli occhi dei nazisti: perché ebrei, ovviamente, ma anche perché italiani, cittadini cioè di quel Paese che proprio nell'ottobre 1943 aveva dichiarato guerra alla Germania e s'era messa al fianco degli Alleati. Il racconto di Debenedetti si apre con una profezia. L'attesa del Sabbato, "che giunge come una sposa", la sera del 15 ottobre assume i contorni di un terribile avvertimento:
Giungeva invece nell'ex-Ghetto di Roma, la sera di quel venerdì 15 ottobre, una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia. Non può esprimersi, l'agitazione le ingorga le parole, le fa una bava sulla bocca. E' venuta da Trastevere di corsa. Poco fa, da una signora presso la quale va a mezzo servizio, ha veduto la moglie di un carabiniere, e questa le ha detto che il marito, il carabiniere, ha veduto un tedesco, e questo tedesco aveva in mano una lista di 200 capi-famiglia ebrei, da portar via con tutte le famiglie.
La donna, povera e creduta matta dagli abitanti del Ghetto, viene ignorata come una Cassandra d'altre storie. Gli avvenimenti si rincorrono l'un l'altro: il Maggiore delle SS Klapper chiede il pagamento di una taglia d'oro entro pochissimi giorni, pena la deportazione nei campi. Tra il silenzio delle istituzioni (la Questura italiana) e aiuti (da parte del Vaticano e, soprattutto, di privati) il denaro viene raccolto, ma non basta: era soltanto una scusa.
Si pensò che i tedeschi non volessero lasciare documenti del sopruso. Ma i tedeschi hanno lasciato e lasciano ben altri documenti: nelle fosse, nei carnai, nelle opere fatte saltare con le mine, nei saccheggi; a ogni loro passo ne hanno lasciati e ne lasciano, e tali che rimangono incisi, e per decenni rimarranno, sulla crosta dell'Europa.
Quel che avviene dopo è insieme storia e tragedia. 16 ottobre 1943 si colloca in quella linea italiana del saggio-racconto inaugurata dal Manzoni con la Storia della Colonna infame e perseguita con grandi risultati nel Novecento dallo Sciascia "manzoniano" di L'affaire Moro, La scomparsa di Majorana. La denuncia di Debenedetti condivide con le pagine manzoniane e sciasciane la tensione verso una sofferta affabulazione razioncinante: si tratta di una scrittura esplicitamente digressiva, perché la digressione è la forma espressiva che permette di incistare sulla narrazione il rovello dell'uomo che vorrebbe fornire una risposta logica di fronte agli interrogativi posti dalle tragedie della storia (di per sé illogiche: "Loro soli [i tedeschi] sapevano la ragione di quell'inferno. E forse la vera ragione era proprio che non ce ne fosse nessuna: l'inferno gratuito, perché riuscisse più misterioso, e perciò più intimidatorio"). Si veda, per esempio, questo passo:
Persuasi da secolari esperienze che il loro destino sia di essere trattati come cani, gli ebrei hanno un disperato bisogno di simpatia umana: e per accattarla, la offrono. Fidarsi della gente, abbandonarvisi, credere alle loro promesse, è appunto una prova di simpatia. Si comportarono così anche coi tedeschi? Sì, purtroppo.
Questa parentesi di, si direbbe, antropologia storica continua per altre brevi pagine, ma quel che m'interessa rilevare è che, una volta terminata, il narratore interviene con una parentesi nella parentesi, un vero e proprio commento critico in cui dichiara:
(Chiediamo scusa di questa digressione, ed eventualmente delle altre in cui incorreremo; ma per intendere l'intera atrocità del dramma che cercheremo di ricostruire, è opportuno conoscere un po' meglio i personaggi).
Le dichiarazioni di Debenedetti ("Io sono un critico, questo è il mio unico mestiere letterario. Il 16 ottobre è stato scritto da chi l'ha vissuto direttamente. Meglio attribuirlo a un nuovo Anonimo Romano, come quello che ci ha lasciato la Vita di Cola.") vanno dunque riviste alla luce dei dati testuali: narratore, testimone e critico vanno insieme, sono intrecciati negli stessi muscoli che impugnano la penna che ha scritto 16 ottobre 1943. Questo narratore dall'identità plurale (è sempre un noi a intervenire, mentre ci annuncia una nota a margine, o l'ingresso in una casa ebrea nel momento in cui si sta compiendo una razzia) è un fratello di tutti quegli "sventurati", "infelici" - sostantivi manzoniani! - che furono deportati o, risparmiati il 16 ottobre, gettati nelle Fosse Ardeatine: un narratore che osserva, nella distruzione della biblioteca del Collegio Rabbinico di Roma e quella della Comunità, una SS sfogliare con delicatezza manoscritti sulla diaspora, che assiste alle irruzioni dei mamonni (gli sbirri tedeschi) nelle case, che si ferma impotente di fronte deportazione di famiglie che baciano per l'ultima volta i propri figli nelle strade della loro città. L'ultima immagine di 16 ottobre 1943 è un treno che si allontana trasformando le vite umane in numeri approssimati per difetto. In memoria di queste vite dissolte dalla barbarie, considero la lettura di 16 ottobre 1943 non soltanto un'esperienza preziosa, ma un dovere morale e civile.
Laura Ingallinella