Amato ragazzo. Lettere a Henrik G. Andersen
di Henry James
Marsilio, 2000
pp. 320
€ 15,50
Quando, nel 1905, Henry James si rivolge al suo così caro Hendrik Christian Andersen chiamandolo (in italiano) Carissimo Enrico, la crisi si è già configurata con esattezza. In realtà, in questa lunga ma episodica parentesi epistolare di James, non si può dire che allo scultore americano di origini norvegesi siano risparmiati appunti e critiche aperte. Sembra, anzi, che nell'originale percorso individuato da Rosella Mamoli Zorzi per la casa editrice Marsilio di Venezia si vada consumando una significativa tragedia in termini di canoni estetici e uno sviluppo speciale della più importante penna americana, uno dei capisaldi del romanzo occidentale del XX secolo.
La prima lettera risale a un anno nel quale i capolavori più celebrati di James avevano già riscosso il loro successo: The Portrait of a Lady (1881), The Aspern Papers (1888) e il recentissimo The Turn of the Screw (1898) sono una realtà nel panorama internazionale. Si è anche consumata - ma non esaurita - la sfortunatissima vicenda a teatro che provocò nel suo autore una serissima crisi artistica ed esistenziale. È avvenuto, in definitiva, quel giro di boa che fa di Henry James un'autorità, ma soprattutto un uomo che, avendo molto vissuto e molto sofferto, si può rivolgere a un giovanissimo artista con i toni affettuosi e un po' distaccati del padre spirituale.
In Amato ragazzo - l'antologia di cui parliamo qui, che raccoglie le lettere dello scrittore all'artista - si ravvisano infatti la stima, l'affetto forte e quasi invadente sul piano fisico, ma anche la formulazione di un pensiero che nulla concede a pulsioni estemporanee o a occasionali e sincere simpatie umane. Abbiamo solo le lettere di Henry James così come ci sono state conservate dalla Fondazione Hendrick Andersen di Roma: l'epistolario nelle nostre mani, dunque, è monco e, dalle allusioni ipercodificate dello scrittore, si può arguire ben poco del tono delle risposte qui mancanti. Proprio a voler sottoscrivere l'urgenza investigativa nella critica letteraria, è bene qui sottrarsi alla tentazione di divinare ciò che non ci è dato, tanto più che l'effetto finale è ben preciso e ci restituisce ancora una volta il genio del suo "autore".
Henry James, reticente se non refrattario a parlare dei dettagli del proprio lavoro, riformula la vicenda di questo rapporto e riesce a introdurre con esattezza a tratti alienante precisi criteri estetici. Con gusto quasi alessandrino, lo scrittore americano insiste contemporaneamente sul senso della realtà e su quello della misura, sottolineando il suo gusto per il minuto, l'impalpabile scorrere della vita. Esemplare sintesi di questo suo profilo intellettuale è la reazione durissima di fronte al progetto della Città mondiale, un progetto di Hendrik Andersen per il quale la scultura veniva a moltiplicarsi fino al punto da divenire istallazione architettonica di un mondo nuovo, se non utopico. Così gli scrive in merito il 4 settembre del 1913 Henry James:
Il Mondo è una faccenda prodigiosa e portentosa e incommensurabile e non posso nemmeno per un istante far finta di starmene qui nel mio angolino a "condividere"affettuosamente che vogliano regolarlo. È tanto più vasto nella sua terribile complessità di te e di me o di qualsiasi cosa possiamo pretendere di volergli fare senza essere accusati di assurdità o follia, e io mi accontento di vivere nella realtà delle cose, e inevitabilmente devo viverci (per quel minimo che ancora posso fare), "coltivare il mio orto" (intellettualmente e moralmente parlando) e mettere le mie questioni davanti a una Coscienza (la mia piccola e personale coscienza) meno inconcepibile di quella del globo. Ecco - guarda che cosa mi hai obbligato a scriverti, e chiediti se a me faccia piacere rattristarti (dalle immensità in cui al contrario credi) come deve inevitabilmente accadere. Se non fosse che non voglio aggiungere più nemmeno una parola, ti supplicherei di ritornare, tu stesso, alla solida Realtà, di recuperare le proporzioni delle cose e di temere come il peggior male di tutte le forze del male l'oscuro pericolo della Megalomania.
Invaso da un'idea, o da un ideale, di classicità, dove le proporzioni sono soggetto e oggetto del gusto e, direi anche, ma a un senso altissimo, della decenza artistica, Henry James non comprende l'ambizione del suo giovane e tenace amico. Le lettere sono scritte tra gli Stati Uniti, l'Inghilterra e l'amatissima Italia (Roma e tutto il centro della penisola) in un continuo inseguimento e nel dolore di appuntamenti a lunga scadenza quasi sempre mancati. Ma non è la distanza spaziale o troppo rari incontri a determinare il distacco: lo scrittore prova nei confronti di Andersen una sincera ammirazione, ma non manca - fin dalle primissime lettere - di rivolgergli appunti anche severi sulle misure e sulla concezione stessa dei suoi soggetti (si pensi al Lincoln seduto, del 1901) o sulle proporzioni scelte dallo scultore, per non parlare delle nudità predilette dal norvegese. La confidenza tra i due non si fa mai complicità o affinità elettiva e, che sia un alibi o meno, l'incomprensione di James nei confronti delle scelte artistiche dell'amato ragazzo si fa barricata, segno di una retroguardia che si tiene stretta alla sua storia.
La vita di quest'uomo ormai maturo appare così quella di un vagabondo schivo e malato, che predilige la propria casa a qualsiasi occasione mondana, ma è costretto a muoversi in giro per il mondo per difendere i suoi interessi e la sua salute. D'altra parte, come ben si vede, non c'è nulla di decadente in lui: l'Henry James che emerge dalle lettere non ha nulla in comune con l'Aschenbach di Mann, con l'uomo in crisi di ispirazione, vittima del proliferare vano di un'estetica estranea e seducente, l'artista alla ricerca dell'angelo-Tadzio: lo scrittore americano ha le idee chiarissime, la sua quotidianità - ivi compreso il differirsi continuo degli incontri con Andersen - è accidentale, certo spiacevole, corollario di un mestiere di scrivere e di far arte che sopporta forse un momentaneo contraddittorio, salvo poi rinsaldarsi nelle sue più profonde convinzioni. Se un effetto dobbiamo riscontrare nella produzione di Henry James in seguito a questo episodio biografico diluito negli anni è proprio la conferma delle qualità più solide nell'arte dello scrittore: lo scavo, la pazienza, un'empatia non priva di ironiche cautele nei confronti di personaggi e situazioni in un mondo "di passaggio" tra ere culturali sentite come inconciliabili fino all'avvento della Grande Guerra.
Per un epistolario che ancora è tutto da studiare, un libro antologico come questo a cura di Rossella Mamoli Zorzi ed Elena di Majo rappresenta un'occasione importante. Va da sé che gli appassionati lettori di Henry James troveranno forse notizie non del tutto utili a inquadrare meglio il personaggio storico, mentre gli specialisti dal canto loro rischiano di poter rubricare ben poco, se non per vie piuttosto impervie e divergenti. Il contributo storico in termini di note e immagini in questo libro ha un suo pregio che non va sottovalutato, ma per quanto l'approccio letterario - qualunque cosa ciò significhi - non sia per forza quello preferenziale, anche per uno scrittore del calibro e dell'importanza di Henry James, il "difetto" - chiamiamolo così - di questo libro è estrinseco: sta cioè nell'eccezionalità di pubblicazioni simili. A parte le lettere della guerra (Il gelso caduto, Robin) e quelle a Isabella Stewart Gardner (Cara donna Isabella, Archinto), entrambi del 2004, non mi risulta che esistano altri titoli in catalogo che possano completare un quadro esauriente in qualche modo sulla corrispondenza di Henry James. E ciò, checché se ne voglia dire, anche a non voler considerare l'assenza delle risposte di Andersen, ha una ricaduta anche sull'interpretazione parziale che si può dare di queste 77 lettere e sulle figure interessate da parte del lettore comune. Amato ragazzo va letto dunque con profitto insieme ai romanzi, e particolare ai romanzi più tardi (The Wings of the Dove, The Ambassadors, The Golden Bowl), ma stenta a decollare da solo.
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