di Bram
Stoker
1^ edizione originale: 1897
1^ edizione originale: 1897
Forse
se Abraham (Bram) Stoker (1847 – 1912) non avesse sofferto di un’infermità che
lo costrinse a letto fino agli otto anni, i temi del sonno senza fine e della
resurrezione dal mondo dei morti non avrebbero tanto infiammato la sua
fantasia. La guarigione miracolosa, la ripresa fisica di cui fu protagonista, capace
di trasformare un infermo in un atleta, ha molto in comune col mito del vampiro
che, attraverso il sangue, ringiovanisce, rigenera i propri tessuti, inverte il
corso della natura.
Nato
a Clontarf, in Irlanda - già terra di folletti e di banshee –Bram Stoker si laureò in matematica al Trinity College e
fu critico teatrale per The Evening Mail. Sposò Florence Balcombe, per qualche
tempo corteggiata anche da Oscar Wilde, dalla quale ebbe un unico figlio.
Coltivò amicizie importanti con Arthur Conan Doyle, con il pittore
preraffaellita Whistler, ed una, strettissima, con l’attore Henry Irving di cui
fu segretario. Fin troppo facili le allusioni, certo è che il mito del vampiro
si è sempre collocato in quell’aura di sessualità deviata, che va dalla
pedofilia - si pensi ai bambini di cui
si nutre Lucy Westenra e alla vampirizzazione di Claudia in Intervista col Vampiro - alla necrofilia, ma sempre in una prospettiva
di decolpevolizzazione, depenalizzazione dell’atto erotico. Da Bram Stoker ad
Anne Rice, giù giù fino a buona parte della saga di Stephenie Meyer, il sesso
diventa orale, si fa dalla cintola in su, in una voluttà che, oltre al piacere
estremo, sovrumano, fornisce conoscenza,
vita eterna, sapienza, bellezza. Almeno fino a quando Bella Swan e Edward
Cullen non decidono che si può provare anche a consumare il matrimonio, generando
una piccola ibrida umana - vampira.
Il
manoscritto di “Dracula” circolava
già fra la cerchia degli amici di Stoker nel 1890 ma fu pubblicato solo nel 1897,
dopo sette anni di studi approfonditi sulla cultura e sulle credenze dei Balcani.
Il romanzo si situa in una tradizione sia antecedente che posteriore, fa da
spartiacque, da pietra miliare. Si collega a Goethe, a The Vampyre di Polidori, alle opere di Ann Radcliffe, di Monk
Lewis, di Maturin, di Mary Shelley, di Edgar Allan Poe e del di poco posteriore
Rider Haggard. Racconta la ben nota storia del conte Dracula, un nosferatu, cioè un non morto della
tradizione mitteleuropea. L’ispirazione era stata fornita a Stoker
dall’ungherese Arminius Vambéry (e, pare, anche da un incubo scaturito da una
scorpacciata di gamberi), professore che lo aveva introdotto alla leggenda di
Vlad Tepes Dracul, l’Impalatore. Non
visitò mai i luoghi che descrive nel suo romanzo, cioè Bistritza e la
Transilvania, ma scrisse un romanzo molto realistico, quasi documentaristico
nonostante l’argomento.
Le
atmosfere sono cupe e oscure ma il tono è impiegatizio. Non bisogna dimenticare
che il più famoso romanzo gotico è stato scritto dall’autore di “I doveri degli impiegati nelle udienze per i
reati minori in Irlanda”. La lingua è appesantita da un’assillante cura del
dettaglio e da un’eccessiva ripetitività dei termini. L’autore si dilunga per
farci riflettere, l’imperfezione linguistica crea un senso di verità, di ansia
crescente e anche di modernità inconsueta per l’epoca.
Ma
quello che conta è la creazione di un personaggio mitico e archetipico. I
personaggi minori non sono ben caratterizzati, solo Dracula spicca. Il vampiro
è il male, è l’ignoto che si cela nella vita di ogni giorno e dentro di noi ma
è anche l’eroe romantico byronico e satanico. Così come Lord Ruthven di
Polidori s’ispirava proprio alla femminea, inquietante e diabolica figura di Byron,
così come i moderni vampiri di Anne Rice – Louis, Lestat, Armand e la bambina
Claudia, bambola immortale fissata in un’eterna immagine puerile - saranno
circondati da un alone romantico, di malinconia, di disperazione senza confini,
di eterno bisogno di redenzione mai soddisfatto, anche il conte Dracula è
avvolto da una nube di solitudine e dolore. La stessa emarginazione e cupio
dissolvi del mostro creato da Victor Frankestein.
“Io non cerco né gaiezza né allegria, né la voluttuosa luminosità della luce dl sole e delle acque scintillanti che tanto piacciono a chi è giovane e gaio. Io non sono più giovane. E al mio cuore, logorato dagli anni di lutto per i miei morti, poco si confà la gaiezza. E poi, i muri del mio castello si stanno disfacendo; molte sono le ombre, e il vento soffia freddo attraverso le merlature e le finestre infrante. Io amo l’oscurità e le ombre, e per quanto possibile vorrei restar solo con i miei pensieri.”
Il
vampiro di Stoker, però, si discosta da quello di Polidori pur conservandone la
malinconia aristocratica. Viene accentuato il legame con gli animali e le forze
della natura, in particolare col lupo, legame che verrà poi ripreso dalla Meyer
nella dicotomia vampiro Edward/ licantropo Jacob.
Il
conte Dracula morirà per mano di Van Helsing e Jonathan Harker e la sua morte
significherà espiazione. Il medesimo riscatto che, nel bellissimo film di
Coppola, Dracula riceverà per mano di Mina, reincarnazione della sua donna
perduta. Il film, infatti, più che mai pone l’accento sul connubio amore e
morte, eros e thanatos, così caro alle atmosfere romantiche e decadenti.
“Quel che mi consolerà finché vivrò è stato scorgere sul suo volto, proprio nel momento della dissoluzione finale, un’espressione di pace che mai avrei immaginato di poter vedere.”
Più
che di opera letteraria vera e propria, possiamo parlare di mito, di archetipo
che attraversa la tradizione, sia arricchisce, muta e, insieme, si fissa, a
ogni riscrittura, a ogni adattamento cinematografico o teatrale. Le atmosfere sono le stesse, haunted and ghosted, rintracciabili in Emily Brönte, con le brughiere dello Yorkshire
che si trasformano nei dirupi innevati dei Carpazi.
"Ben presto ci siamo trovati racchiusi tra gli alberi, che in alcuni punti s’incrociavano ad arco sulla strada, tanto che pareva di passare in una galleria. Ancora una volta, grosse rocce si piegavano accigliate su di noi, scortandoci burbere a destra e a sinistra. Benché fossimo al riparo, sentivo il vento levarsi, gemeva e fischiava tra le rocce, e i rami degli alberi si scontravano tra loro al nostro passaggio. Si faceva sempre più freddo, e una neve impalpabile ha cominciato a cadere, ben presto noi stessi, e tutto intorno a noi, siamo stati ricoperti d’un bianco manto. Il vento penetrante ancora trasportava l’ululato dei cani, che tuttavia si faceva sempre più debole, man mano che procedevamo nel nostro cammino. Il verso dei lupi risuonava sempre più vicino, come se ci stessero accerchiando."
A
ogni luogo (il castello del conte, la casa di Lucy Westenra, Carfax) corrisponde
un’uccisione. La morte di Lucy, vittima innocente e inconsapevole, fa da discriminante
fra chi è ignaro, e quindi in balia del
male, e chi lo conosce per poterlo combattere. Lucy è il prototipo decadente dell’innocenza
violata, della purezza corrotta, del fiore sgualcito dal profumo sottilmente erotico
e proibito. Mina non è molto diversa nel libro ma acquista più spessore e
valenza romantica nel film di Coppola, incarnando l’amore che va oltre la
morte, diventando strumento attraverso cui opera la Provvidenza.
La
struttura della narrazione sfrutta la forma epistolare ma non solo, utilizzando,
oltre alle lettere, anche telegrammi e articoli di giornale, in un gioco di
sfaccettature già molto moderno. L’io narrante è multiplo.
“Il racconto, dunque, non è fatto per voce di un unico narratore, ma di molti, e questi non hanno come solo referente un ipotetico lettore, bensì di volta in volta se stessi (attraverso il diario, sorta di ripensamento e fissazione degli eventi), un altro personaggio (attraverso la lettura dei diari altrui e tramite lo scambio di lettere e telegrammi) e solo in ultima istanza il lettore che, come un accidentale spettatore o testimone, indirettamente viene a conoscenza degli eventi.” (Paola Faini)
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Riferimenti
Riccardo
Reim Introduzione a Stoker Dracula, Newton Compton, 1993, 2006
Paola
Faini, Prefazione a Stoker Dracula, Newton Compton, 1993, 2006