Gianluca Morozzi, "Mortimer Blues"


Mortimer Blues
di Gianluca Morozzi

Edizioni Il Foglio Letterario
pp 67
4,90


Aprendo un libro a caso, appartenente al sottobosco della nostra narrativa contemporanea, con una mano a coprire il frontespizio, diventa difficile, ormai, distinguere dallo stile un autore maschio dall’altro. Tralasciando, ovviamente, chi scrivere non sa, anche fra i bravi c’è una specie di lingua trasversale che accomuna molti scrittori, in parte mutuata dalla frequentazione con gli americani. Questo, senza nulla togliere all’efficacia di “Mortimer Blues”, racconto lungo, più che romanzo, dello scrittore musicista Gianluca Morozzi, classe 1971, per la collana Demian.
Sebbene anche il contenuto non si discosti molto dal filone della confessione interiore giovanilistica accompagnata da sottofondo musicale, Mortimer blues spicca per due elementi: l’innegabile competenza musicale dell’autore e quel senso tremendamente universale di aspirazioni fallite.

Il protagonista si chiama Vincenzo ma lo veniamo a sapere solo a metà dell’opera, con un guizzo tecnico abbastanza originale. Il suo nome si duplica e poi triplica in Vincent e Vega, a segnare il passo di un’incipiente alienazione mentale. È un musicista progressivamente sempre più colto ed esperto ma, in realtà, incapace di grande ispirazione. Passa la vita a cercare di scrivere l’”opera”, quella che lo differenzierà da tutti gli altri, che lo renderà immortale, che resterà nella storia della musica. Gli viene consigliato di studiare, prima di produrre qualcosa di nuovo, e si mette a farlo con una ossessività che lo risucchia. Frequenta di tutto, classici e contemporanei, e poi ancora nuovi contemporanei, perché, intanto, il tempo passa e lui non è più un adolescente che mette insieme due note per la ragazza di cui è invaghito.
In questo, Vincenzo/Vincent è metafora di tutti gli artisti, dei compositori, degli scultori, dei pittori, dei poeti. Vincenzo è il cantante che s’iscrive al talent, è lo scrittore fallito che recensisce libri altrui sperando, a furia di smontare testi, d’imparare come si scrive un capolavoro. E la sua ricerca si prolunga, diventa infinita, fine a se stessa, il mezzo prende il posto del fine.
Io non sto diventando pazzo, io sto studiando per scrivere il disco dei dischi, la sinfonia degli dei, l’opera del secolo, altro che pazzo, quanti grandi artisti venivano giudicati pazzi dai loro ignoranti contemporanei?, non erano pazzi, erano al di là della comprensione di quegli zotici!, io scriverò l’opera suprema, l’opera definitiva. Quando avrò finito di studiare e ascoltare tutto, naturalmente.”  (pag 63)

Non si sa di cosa viva Vincenzo, forse ancora del lavoretto che faceva da ragazzo, ma certo, contrariamente a quanto gli rimproverano gli amici all’inizio della sua inesistente carriera, non ha “sostituito il sogno con la concretezza”, anzi, ha fatto proprio il contrario, si è condannato a un’eterna giovinezza artistica senza la maturità di un talento che non c’è.
Alla fine dobbiamo rinunciare  delle occasioni perché tu ti sei inchiodato al mondo reale in questi modi assurdi e non decolliamo mai, capisci? Perché hai scelto la concretezza al sogno. Questo voglio dire.” (pag 49)
E, appunto, tutto quello che Vincenzo farà nella sua vita leggermente paranoica, sarà nascondere a se stesso la propria mancanza di talento, salvo ammetterla solo da ubriaco, distruggendo a martellate le scadenti opere prodotte.
Il tono è agevole, ironico, divertente, ma il racconto di Morozzi è intriso di nostalgia per un tempo in cui tutte le possibilità e le speranze sono ancora aperte - il tempo dell’adolescenza caro alla collana Demian – e dove l’amara verità non è ancora venuta a galla. Il racconto è pervaso da un crudele senso di fallimento, d’incompiutezza, di spreco, e anche da uno spasmodico desiderio di riscatto, così bene espresso con l’immagine delle tartarughine in corsa verso il mare.
“Ma la cosa che ci frega, a noi, è il fatto che arrivare al mare non sia del tutto impossibile. Qualcuno ci arriva a quell’acqua maledetta, quindi si può fare, quindi ci si riesce, no?”