Tra Livorno e Genova, il
poeta delle due città
Omaggio a Giorgio Caproni
a
cura di Patrizia Garofalo e Cinzia Demi
Edizioni
Il Foglio, 2013
pp. 110
Ci
sono saggi letterari che illuminano, arricchiscono, fanno dire: “Ecco, questo è
proprio ciò che pensavo e sentivo”. Ce ne sono altri che grondano accademia, ad
esempio quelli letti nei giorni dell’università, quando dovevi perdere un’ora, non
per studiare il poeta o il romanziere in questione, ma solo per capire cosa
intendesse il critico con la sua nebulosa accozzaglia di parole. Si finiva per
telefonarci l’un l’altro fra studenti, chiedendo: “Ma tu cosa hai recepito?” Si
cercava di ricostruire il filo del discorso, di “tradurre” il testo in un
italiano comprensibile, mettendo faticosamente in relazione soggetto e
predicato. Spesso, alla fine, una volta parafrasato e volgarizzato, il saggio
era riassumibile in tre o quattro concetti cardine. Provavamo, allora, il
bisogno di allontanarci da un mondo fatto solo di gente che si parlava addosso,
e immergerci nella vita reale, nelle cose concrete.
Questa
premessa per segnalarvi una raccolta di saggi su Giorgio Caproni - poeta più
che mai alla ricerca del contatto totale fra parola e cosa – che contiene testi
sia dell’uno e che dell’altro stampo. Per fortuna sono prevalenti di gran lunga
quelli del primo tipo.
“Tra Livorno e Genova, il poeta della due
città”, a cura di Patrizia Garofalo e Cinzia Demi, è un omaggio a Giorgio
Caproni, che si sviluppa in dodici saggi, alcuni
frutto di due convegni organizzati da una delle curatrici, a Palermo e a
Bologna, altri opera di studiosi e cultori e persino dello stesso figlio di
Caproni. Molti emozionano, uno
in particolare annoia perché scritto in un linguaggio intellettualmente auto
compiaciuto.
La
raccolta si apre con un’intervista che il figlio di Caproni, Attilio Mauro, ha rilasciato a Matteo Bianchi. Caproni figlio sostiene che scrivere versi è una
pratica difficilissima, non è sufficiente mettere parole in colonna per essere
poeti, non si deve rispecchiare un’epoca specifica, bensì avere intuizioni che
scavalcano il tempo e restano valide a distanza di secoli. Il poeta raggiunge
la maturità artistica attorno ai quaranta anni, dopo di che la creatività scema
e si ripercorrono i propri passi con meri esercizi di stile.
Il
secondo saggio, di Angelo Andreotti,
si occupa della raccolta “Res amissa”, uscita postuma nel 1991 a cura del filosofo Giorgio Agamben. La
res amissa è la cosa che si può perdere, la cosa che c’era ma di cui si è smarrito
anche il ricordo, la cosa nascosta così bene da essere scomparsa e che permane
solo come assenza, come nostalgia di un Dono ormai inconoscibile: forse la
Grazia, forse la Vita, forse la Poesia stessa, in ogni caso il Bene.
“Gli ultimi versi della sua produzione poetica, e in particolare quelli di Res amissa, risultano franti, in parte anche sincopati, interrotti da trattini e parentesi, separati da spazi bianchi e puntini (di “canto spezzato parla Agamben”); e con questa disarmonia – con questo respiro affannato, ansioso – sembra voler negare al lettore la piacevolezza della lettura, o per lo meno imporgli un ritmo rigido, per nulla naturale”. (Angelo Andreotti)
Il
terzo saggio, ancora a firma Matteo
Bianchi, è indicativo di una tendenza che, ultimamente, si sta diffondendo
nella critica, quella, cioè, di essere multimediale, di mescolare “alto e
basso”. (La recente candidatura di Vecchioni al Nobel per la letteratura ne è
un esempio.) In questo saggio, Bianchi accosta il testo di “Canzone”, di Lucio Dalla e Samuele
Bersani, con la poesia di Caproni “Preghiera”.
E, nonostante la disparità di valore, come dimenticare che la poesia è nata
proprio con accompagnamento di musica? Come dimenticare il video nel quale
Caproni stesso confessa di essersi avvicinato alla poesia da paroliere dei
propri componimenti musicali?
Bianchi
rimarca il rifiuto del classicismo in Caproni, il suo aggancio con la
tradizione popolare di Genova e di Livorno, la facilità e, insieme, la sapienza
estrema della rima, l’eco nei suoi versi di Cavalcanti e dei primitivi.
Il
quarto saggio, di Fabio Canessa, si
sofferma sui temi del congedo e del viaggio, cari al poeta livornese: il
congedo è da una vita cara, amata e superiore alla poesia, una vita che nessuna
parola riesce a rendere.
“Io
son giunto alla disperazione calma,
senza
sgomenti.”
“Nella musicalità affabulatoria orchestrata dagli enjambement, nel lessico discorsivo del tono colloquiale c’è tutta la “calma disperazione” dell’accettazione della vita e della morte.”
Anche
il viaggio si fonde con il suo contrario, con “la negazione della partenza e
il corto circuito fra passato, presente e futuro sfiora il nonsense.”
Nel
quinto pezzo, Maurizio Caruso parla
degli elementi che hanno ispirato il quadro di Caproni riprodotto sulla
copertina.
Nel
sesto, Cinzia Demi si occupa della
raccolta “Il seme del piangere” (1959) e, in particolare, degli splendidi
Versi livornesi. Se Genova è la città della maturità, dell’essere a pieno se
stesso, Livorno è il luogo dell’anima, dell’infanzia, del re-incontro con la
madre giovane. Il dolore è modulato con disincanto come in “Ad
portam inferi” che qui riproponiamo per la sua semplice bellezza.
Chi
avrebbe mai pensato, allora,
di
doverla incontrare
un'alba
(così sola
e
debole, e senza
l'appoggio
di una parola)
seduta
in quella stazione,
la
mano sul tavolino
freddo,
ad aspettare
l'ultima
coincidenza
per
l'ultima stazione?
Posato
il fagottino
in
terra, con una cocca
del
fazzoletto (di nebbia
e
di vapori è piena
la
sala, e vi si sfanno
i
treni che vengono e vanno
senza
fermarsi) asciuga
di
soppiatto - in fretta
come
fa la servetta
scacciata,
che del servizio
nuovo
ignora il padrone
e
il vizio - la sola
lacrima
che le sgorga
calda,
e le brucia la gola.
Davanti
al cappuccino
che
si raffredda, Annina
di
nuovo senza anello, pensa
di
scrivere al suo bambino
almeno
una cartolina:
"Caro,
son qui: ti scrivo
per
dirti ..." Ma invano tenta
di
ricordare: non sa
nemmeno
lei, non rammenta
se
è morto o se ancora è vivo,
e
si confonde (la testa
le
gira vuota) e intanto,
mentre
le cresce il pianto
in
petto, cerca
confusa
nella borsetta
la
matita, scordata
(s'accorge
con una stretta
al
cuore) con le chiavi di casa.
Vorrebbe
anche al suo marito
scrivere
due righe, in fretta.
Dirgli,
come faceva
quando
in giorni più netti
andava
a Colle Salvetti,
"Attilio
caro, ho lasciato
il
caffè sul gas e il burro
nella
credenza: compra
solo
un pò di spaghetti,
e
vedi di non lavorare
troppo
(non ti stancare
come
al solito) e fuma
un
poco meno, senza,
ti
prego, approfittare
ancora
della mia partenza,
chiudendo
il contatore,
se
esci, anche per poche ore."
Ma
poi s'accorge che al dito
non
ha più anello, e il cervello
di
nuovo le si confonde
smarrito;
e mentre
cerca
invano di bere
freddo
ormai il cappuccino
(la
mano le trema: non riesce,
con
tanta gente che esce
ed
entra, ad alzare il bicchiere)
ritorna
col suo pensiero
(guardando
il cameriere
che
intanto sparecchia, serio,
lasciando
sul tavolino
il
resto) al suo bambino.
Almeno
le venisse in mente
che
quel bambino è sparito!
E'
cresciuto, ha tradito,
fugge
ora rincorso
pel
mondo dall'errore
e
dal peccato, e morso
dal
cane del suo rimorso
inutile,
solo
è
rimasto a nutrire,
smilzo
come un usignolo,
la
sua magra famiglia
(il
maschio, Rina, la figlia)
con
colpe da non finire.
Ma
lei, anche se le si strappa
il
cuore, come può ricordare,
con
tutti quei cacciatori
intorno,
tutta quella grappa,
i
cani che a muso chino
fiutano
il suo fagottino
misero,
e poi da un angolo
scodinzolano
e la stanno a guardare
con
occhi che subito piangono?
Nemmeno
sa distinguere bene,
ormai
tra marito e figliolo.
Vorrebbe
piangere, cerca
sul
marmo il tovagliolo
già
tolto, e in terra
(vagamente
la guerra
le
torna in mente, e fischiare
a
lungo nell'alba sente
un
treno militare)
guarda
fra tanto fumo
e
tante bucce d'arancio
(fra
tanto odore di rancio
e
di pioggia) il solo
ed
unico tesoro
che
ha potuto salvare
e
che (lei non può capire)
fra
i piedi di tanta gente
i
cani stanno a annusare.
"Signore
cosa devo fare,"
quasi
vorrebbe urlare,
come
il giorno che il letto
pieno
di lei, stretto
sentì
il cuore svanire
in
un così lungo morire.
Guarda
l'orologio: è fermo.
Vorrebbe
domandare
al
capotreno. Vorrebbe
sapere
se deve aspettare
ancora
molto. Ma come,
come
può, lei, sentire,
mentre
le resta in gola
(c'è
un fumo) la parola,
ch'è
proprio negli occhi dei cani
la
nebbia del suo domani?
La
Demi avvicina Caproni a Saba, anch’egli controcorrente per lo stile
umile.
Annina
è un archetipo femminile, una cavalcantiana e stilnovistica figura guida, che accompagna
l’anima del poeta ormai vecchio attraverso una Livorno popolare, gioiosa, mattutina
e non ancora bombardata. La madre diventa fidanzata del figlio ma non in un
rapporto incestuoso, bensì atemporale, che ricongiunge e fonde le anime; così
come la poesia “A mio figlio Attilio
Mauro che ha il nome di mio padre”, contenuta in “Il muro della terra” (del
75), crea un legame astorico fra padre e figlio, dove il padre diventa figlio
di suo figlio (quasi un’eco, ancora una volta, del paradiso dantesco e della
Vergine Maria) e viene trasportato in quel futuro che non gli apparterrà.
Portami
con te lontano
...lontano...
nel
tuo futuro.
Diventa
mio padre, portami
per
la mano
dov'è
diretto sicuro
il
tuo passo d'Irlanda
l'arpa
del tuo profilo
biondo,
alto
già
più di me che inclino
già
verso l'erba.
Serba
di
me questo ricordo vano
che
scrivo mentre la mano
mi
trema.
Rema
con
me negli occhi allargo
del
tuo futuro, mentre odo
(non
odio) abbrunato il sordo
battito
del tamburo
che
rulla - come il mio cuore: in nome
di
nulla - la Dedizione.
Il
settimo saggio, scritto da Flora di Legami,
è il più ostico, indigesto e compiaciuto. Si occupa delle raccolte “Il Franco Cacciatore “ (1982)“ e Il conte di Kevenhüller” (1986), già di
per sé difficili per il linguaggio franto e l’ardua ricerca stilistica.
“Il
franco cacciatore” è ispirato a un’opera di Weber, su libretto di Kind,
ma s’inserisce in una tradizione che, come dice la di Legami, “da Dante a Boccaccio, da Petrarca a
Poliziano, da Marino a Bruno, giunge alla modernità con Valery e Melville”. Le
metafore venatorie e mitologiche e il motivo del viaggio sono la traccia per una
discesa all’interno del sé alla ricerca di valori universali. “Bellezza e orrore, attesa e vuoto, vitalità
e morte, parola e silenzio, sono i nuclei di un racconto, disposto sul metro
della mitica caccia.” (Flora di Legami)
La
caccia è nei confronti di Dio, la morte del cacciatore è il sacrificio della
parola al silenzio. I continui punti di sospensione, le parentesi, le frasi
spezzate indicano un’ indagine che si avvita su se stessa aspirando a un’inattingibile
essenzialità.
“Atteone è segno del lavorio ininterrotto per dire l’indicibile.” “Per via di continui slittamenti inversioni e giochi di antifrasi, il poeta compone inediti arabeschi di sovversione logica, con cui rendere gli scarti disarmonici dell’esistere e del pensiero.”
“Il
conte di Kevenhüller” (1986) è una sorta di “operetta morale” basata
sulla caccia a una feroce Bestia che altri non è che la parola stessa.
“Se la parola è l’involucro in cui prendono forma e consistenza angosce, tremori, interrogazioni e dubbi di una ricerca esistenziale, nessuna meraviglia che proprio questa divenga la preda mitica del poeta cacciatore.”
Alla
fine si ha un’infinita e ossimorica coincidenza di opposti, una myse en abyme fra vita e morte,
cacciatore e preda.
L’ottavo
saggio, di Rosa Elisa Giangoia, si
riferisce al poemetto “Ballo a Fontanigorda” (1938), evidenziando
il legame di Caproni con la val Trebbia, i suoi boschi, i suoi villaggi e la
statale 45. Qui Caproni fu maestro elementare e partigiano. Qui la sua poesia, basata
più “sul togliere parole che sull’aggiungerne”, arriva al definitivo superamento della concezione romantica e decadente di paesaggio
come specchio dello stato d’animo e ritratto di luogo ameno e pittoresco. Il
paesaggio non comunica emozioni, è uno spazio rarefatto, semplificato, è un
luogo da cui tutti se ne vanno, lasciandoci soli con il bosco e il fiume, mentre,
man mano, le certezze svaniscono e le risposte ridiventano domande.
Il
nono saggio, di Gianfranco Lauretano,
parte dalla raccolta “Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre
prosopopee” (1965) per mostrarci come dal ‘65 al ‘90 Caproni non abbia
fatto che congedarsi da tutto, dalla vita, dalla famiglia, dagli amici, da
quello che chiamava mézigue, cioè “me
stesso”. Già da cinquantenne inizia a salutare, mentre la sua poesia sempre più
si rastrema, mentre la storia lo delude, mentre il concetto di Dio, per lui ateo,
diventa sempre più sfuggente e, insieme, paradossalmente desiderabile.
Il
decimo saggio, del linguista Fabio Marri,
ci mostra nei particolari come lavora il poeta Caproni, come la sua lingua
facile, quasi elementare - se sottoposta ad analisi tecnica - sveli tutta la
sua sapienza e l’artificio.
Il
linguaggio è semplice ma composto anche di termini rari e aulici, di aggettivi
inusuali, il senso letterale delle parole è trasformato e arricchito dalla loro
forma fonica, dall’armonia all’interno della frase, dalla posizione nel
discorso poetico, dalla disposizione sintattica. Il verso è agile, si allunga
nell’enjambement, si dispiega in rime
baciate, prima chiare, poi, con l’acuirsi del tormento interiore e della
ricerca, sempre più scure. La rima serve ad accostare fra loro parole che possono
fondersi o cozzare, come in Cavalcanti, Carducci, Pascoli, prima, e Ungaretti,
Montale, Saba, Luzi, poi. Le parentesi, invece di isolare, evidenziano concetti
fondamentali, epifanici, le frasi diventano esclamative e interrogative, a
sottolineare riflessioni dolorose.
Tutto
questo, a detta di Caproni stesso, senza formalismi forzati, senza ritorni
anacronistici ad avanguardie superate, senza anticonformismo obbligato, ma
anche senza nessuna musicalità consolatoria.
L’undicesimo
saggio, di Paolo Ruffilli, mette in
collegamento la poesia di Caproni con l’opera lirica settecentesca e con la
cultura illuminista.
Infine
l’ultimo, di Massimo Scrignoli, evidenzia
l’immagine ricorrente in Caproni della “stella nera”, luce spenta ma pur sempre
luce, collegata al ricordo della perduta sorella minore, Marcella.