Non so niente di te
di Paola Mastrocola
Einaudi, I Coralli 2013
pp. 344
cartaceo € 18,50
ebook € 9,99
Cominciamo facendo un
passo indietro. Paola Mastrocola nel presentare il suo saggio Togliamo il disturbo afferma che è da
leggere come “una battaglia, un atto di accusa” e soprattutto come la sua
“personale preghiera ai giovani perché scelgano loro, in prima persona, la vita
che vorranno”. Queste parole rappresentano in maniera inequivocabile il cuore e
la direzione della sua scrittura, il suo sforzo costante di opporsi a mali
quasi invisibili insinuati nelle nostre vite e mostrano la volontà di affermare
il diritto a una libertà vera e sentita. Ecco, in queste parole è possibile
riconoscere anche l’ultimo libro della scrittrice: Non so niente di te.
Stessi temi, dunque, ma
declinati seguendo generi totalmente diversi. La sua impronta è inconfondibile:
una scrittura ironica e una grandezza che sta nel parlare di cose semplici ma
universali. Il romanzo mette in campo grandi temi come la libertà o il tempo;
temi sostenuti sempre da una leggerezza dal sapore calviniano. La scrittrice gioca con
i piani temporali, con le prospettive: la storia è raccontata da un futuro che
volge indietro lo sguardo a quello che in realtà è il nostro presente e la
nostra società.
Insomma è romanzo un po’ presbite un po’ miope. Forse ho messo insieme due difetti della vista. Forse sentivo il bisogno, per vedere meglio, di allontanare gli oggetti e poi di avvicinarli.
La situazione iniziale
che viene presentata è piuttosto singolare. Filippo Cantirami, giovane
economista, arriva in un prestigioso college di Oxford nel quale in veste da
relatore dovrà esporre un innovativo algoritmo che potrebbe rivoluzionare gli
studi sulla crisi economica. Dov’è la stranezza? Irrompe con un gregge di
pecore Suffolk, ben centosessantotto. Fil è uno studente ideale, un figlio
ideale, laureato alla Bocconi, studente alla London School of Economics e
infine dottorando a Stanford, ma quell’evento inverosimile aprirà una voragine
nel disegno perfetto della sua vita. Questo l’incipit da cui si diramerà la
storia, o per meglio dire le storie che seguiranno un andamento dal sapore
cinematografico. Verrà composto un vero e proprio puzzle in cui le vicende si
alternano ma procedono parallele verso lo stesso obiettivo, catturando così
l’attenzione del lettore.
Fil sparisce lasciando
dietro di sé solo domande, ciò che seguirà si giocherà sul motivo
dell’inchiesta, della ricerca, il cui oggetto sarà Fil stesso che a sua volta
andrà alla ricerca dentro di sé di qualcosa che non sa ancora definire ma che
sente profondamente necessario. Modello imprescindibile sembra essere quello
ariostesco. La famiglia viene scossa
e ciascuno comincia la propria personalissima ricerca. Il padre col suo fare
pragmatico cerca spiegazioni logiche, indaga ma si imbatte solo in altre
domande; la madre spaesata, come presa da una compulsione, riavvolge il filo
del passato, vuole comprendere e crede di poter recuperare questo vuoto andando
a ritroso nel tempo e incontrando persone che hanno fatto parte, in un modo o
nell'altro, della vita di Fil ma, un tassello alla volta, questi incontri
compongono l’immagine di un figlio sconosciuto alla propria madre.
E così dalle parole
degli altri personaggi cominciamo a comprendere il percorso del protagonista.
Fil è un personaggio difficile da
tollerare in una società in cui si parla di precari e ci si batte contro i
privilegi dei pochi; può apparire come una stonatura imperdonabile ma scorrendo
le pagine del romanzo si capisce come nulla ci sia di più lontano da un banale
capriccio da figlio dell’alta borghesia o da una scelta anticapitalista alla moda.
Filippo, piuttosto, è “un vincitore che non vuole vincere” e interrompe lo scorrere di un mondo che ha
diretto la sua vita facendogli percorrere binari precostruiti su convenzioni
ormai fittizie, strade talmente consolidate da essere ritenute le uniche
praticabili.
La Mastrocola smaschera
il nostro mondo moderno e democratico in cui tutti credono di essere liberi e
invece sono avviluppati in reti sociali pericolosamente invisibili. La felicità
sociale diventa l’unico padrone a cui obbedire, ma ciò che è considerato il
meglio dalla società, dalla famiglia non è sempre il meglio per ciascuno di noi
Nessun genitore deve volere il meglio per suo figlio. E sai perché? Perché non lo sa […] E allora dovrebbe starsene a guardare e basta, in silenzio e con grande calma. Un po’ come si sta davanti al mare a guardare il mare. Cosa si fa davanti al mare? Si guarda il mare. Basta. Si accompagnano le onde con lo sguardo. Questo. Una per una.
Fil decide una cosa banalissima
e rivoluzionaria: scegliere che direzione dare alla propria vita e prendersi la
vera libertà di poter trascorrere un’esistenza secondo il proprio animo. Il
cuore del romanzo si trova nell’idea di libertà ma propone anche un’idea di
tempo scomoda nel mondo della comunicazione spasmodica, della velocità e della
produzione costante e frenetica.
Lui voleva accorgersene, invece, della vita. Erano troppo belle le ore lunghe. Non saper che fare, mettersi su un sedile, distendere le gambe, chiudere gli occhi. O tenerli aperti a guardare la gente, leggere, camminare un po’, andare fuori, fumarsi una sigaretta, prendere qualcosa al bar. Le sale d’attesa. Oh se la vita fosse questo: una gigantesca sala dove aspetti, e intanto giri, e fai, e pensi. E il tempo passa, e tu telo prendi.
La scrittrice difende in maniera accorata la
possibilità che venga ancora permessa l’esistenza di mondi silenziosi, solitari
che rispondono a ritmi diversi, che richiedono tempo. Fil fa parte di questi
mondi
Permanevano codesti mondi, ebbene sì, ma ridotti, e appartati: sembravano scogli, per così dire. Piccoli isolotti scogliosi. Per dirla in un altro modo, chi amava stare solo, isolato e fermo, continuò a farlo: come uno scoglio, appunto, in mezzo alla capricciosa variabilità del mare, ora impetuoso ora calmo. Uno di questi scogli era Fil. Ed essere uno scoglio in tempi in cui gli altri erano onde tumultuose non era facile.
Interessantissima sarà
la figura di zia Giù legata a Fil da un rapporto unico. Può essere definita una
donna sopra le righe, ma solo se per righe intendiamo i confini mentali imposti
dalla società. Figlia dell’alta società decide di lavorare come guardarobiera
di una biblioteca centrale per contemplare la bellezza della vista e ammirare
lo splendido pavimento in porfido; il suo è un animo fine e ambiguo ma non
riconosciuto, lei è una donna che ha puntato tutto soltanto
sulla felicità individuale.
L’ultimo paragrafo è un
regalo inaspettato al lettore: il nastro viene mandato avanti, la storia
narrata si ridimensiona in una prospettiva ampia di vita. Si gioca di nuovo con
i punti di vista e il messaggio diventa universale. La conclusione si muove su
accordi lievi e malinconici che sfociano in una sorta di catarsi.
Null’altro della storia
è giusto anticipare, lascio ai lettori il piacere di procedere lungo le fila di
una trama costruita in maniera abilissima, di gustare gli intelligenti ritratti
dei diversi personaggi e di misurarsi con temi fondamentali, direi oggi più che
mai necessari.
Valeria Inguaggiato