Con tutto il rispetto per Alice Munro di cui ho letto, e apprezzato, “Troppa felicità” pubblicato con Einaudi, trovo alquanto misterioso che il Nobel per la letteratura sia ancora sfuggito a Philip Roth e a Cormac McCarthy. Intendiamoci, non è che tutti i libri di questi mostri sacri siano dei capolavori. A me ad esempio “La strada” ha deluso mentre Roth non è che raggiunga sempre le vette di una “Pastorale Americana”. Tuttavia qui possiamo divertirci a fare un breve parallelo fra due scrittori, due trilogie, due caratteri. Con qualche ricordo di viaggio che non fa mai male.
La trilogia di Philip, solo una parte della sua sterminata produzione letteraria che pare si sia conclusa con “Nemesi”, a detta di Roth stesso, è composta da “Pastorale americana”, “Ho sposato un comunista” e “La macchia umana”. Seymour Levov, lo “Svedese”, Ira Ringold detto “Rinn”, Coleman Silk, i monumentali protagonisti costretti a fare i conti con le fasi cruciali e le contraddizioni della storia e della società americane del Novecento: il Vietnam, la caccia alle streghe lanciata dal senatore Joseph McCarthy, che nulla c’entra con Cormac, le convenzioni e l’ipocrisia che schiacciano prima la carriera e poi la vita di un professore universitario. Ce lo vedo Philip Roth ad amalgamare una materia da uno scranno privilegiato: la baia di Newark, a soli otto chilometri da Manhattan e ancora meno dall’ultimo borough di New York: Staten Island. Roth è nato in un luogo che ha dato i natali a Joe Pesci, Jerry Lewis, Gloria Gaynor, Whitney Houston, Paul Simon, Brian De Palma, Paul Auster, Shaquille O’Neal, Marvin Hagler, Allen Ginsberg. L’America cool, quella della musica e del cinema, dello sport e della beat generation. Quella che conosciamo forse di più, la faccia migliore del “colonialismo”. E sta lì a riflettere, oramai stempiato, sui passaggi che vede scorrere ogni giorno dal suo appartamento intimo, un letto, un tappeto e una scrivania. Col suo sorriso sornione ha detto di non provare più fanatico attaccamento per la scrittura, probabilmente cova un temperamento imbarazzante, come non a caso sono i suoi personaggi, fatto perfino di bassezze ma è gli bastato parlare con lucidità al mondo per meritare un pre-pensionamento e qualche passeggiata senza assilli a Brooklyn.
Se togliamo l’incognita Pynchon, Cormac McCarthy è il più appartato fra i grandi scrittori americani viventi. La sua è una trilogia western cominciata con “Cavalli selvaggi” e proseguita con “Oltre il confine” e “Città della pianura” che ruotano intorno alla Bildung di due giovani cowboy, John Grady Cole e Billy Parham. Western come è un residuo di western la città dove Cormac McCarthy ha scelto di vivere: El Paso, divisa dalla messicana Ciudad Juárez solo dal Rio Grande. Togliamo questi due aggregati metropolitani e resta il deserto di Chihuahua, la sua luce abbagliante, come quella di ogni deserto, tanto intensa da proiettare ombre così nere che inghiottiscono tutto, anche
Se provo a catturare un paio di ricordi, non vorrei essere irrispettoso ma il New Jersey l’ho trovato inutile quanto i casinò di Atlantic City e il New Mexico sfumato di rosa ma pronto a colorarsi di rosso. Sangue. Nel frattempo aspetto che Roth ci ripensi e McCarthy si allontani dal tappeto verde per rituffarsi sui tasti di un computer. E spero che a Stoccolma, prima o poi, escano i loro nomi. Magari ex-aequo.
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