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CENTRO STUDI «BIAGIO MARIN» STUDI MARINIANI ANNO XIV/XV N. 12/13 DICEMBRE 2007 PISA ROMA FABRIZIO SERRA EDITORE

Ex professore di pedagogia, allievo del Gentile, amico di Lombardo Radice: ex ispettore scolastico, ex amministratore di una grande azienda, ex volontario di guerra di redenzione, invalido di guerra, combattente della Libertà, modesto scrittore e poeta: insomma, mi pareva proprio di essere degno di venir preso in considerazione. […] Io ho il torto di essere, per temperamento un anticonformista: mentre la legge fondamentale della vita associata è la capacità di conformarsi ai modi di vita della maggioranza. […] Mia è la vita, con tutto il dramma che essa può implicare quando deve farsi conoscenza.[1]

Questa breve autopresentazione di Biagio Marin ci introduce all’interno dell’intenso profilo umano e professionale dello scrittore, colto alla soglia di un periodo piuttosto delicato della sua vita, l’ultimo raggio della propria esistenza. Il poeta, tracciando un curriculum assai degno di attenzione, riconosce purtroppo che probabilmente l’anticonformismo, la libertà poetica stilistica e la non appartenenza letteraria, siano state con tutta probabilità, le cause principali della sua estraneità alla schiera degli scrittori ammirati e stimati dalla critica del secondo Novecento letterario italiano.
       L’interessante e corposo volume raccoglie una serie di curatele dedicate a diverse corrispondenze e saggi che Biagio Marin dedica ad alcuni letterati e amici suoi conterranei ad iniziare da Virgilio Giotti, per proseguire con l’omaggio a Umberto Saba e ad Amedeo Giacomini; il volume accoglie un ritratto biografico dedicato a Gino Marchetot e due sono, inoltre, gli importanti carteggi che ci permettono di approfondire la caratura morale e religiosa di Biagio Marin: la costante e intensa corrispondenza epistolare con Carlo Betocchi e le missive inviate all’amico Manlio Dazzi.
       La funzione dello scrittore friulano, nel rendere omaggio a grandi scrittori, inizia dal ricordo affettuoso di Virgilio Giotti in cui si sente ancora viva la solidarietà di Marin verso uno scrittore «solitario, affamato di umanità, di rapporti amorosi affettuosi»,[2] di un uomo che sapeva trasfondere nelle liriche il significato più intrinseco di amore e di morte, una poetica osservata da Marin, come «itinerario dall’angoscia alla libertà dell’uomo».[3]
     In questo viaggio che possiamo definire del tormento esistenziale che Marin intravede nel rinvio toccante all’amico Giotti, cogliamo anche una stretta connessione con quello che nella profondità del pensiero di Biagio Marin è sempre stato il proprio turbamento interiore, una “semioscurità” di vita  vissuta ai margini di una cosiddetta letterarietà di primo piano.
  Edda Serra in Biagio Marin per Umberto Saba presenta quelli che appaiono i motivi di divergenza della poetica dei due autori: «il prepotente solare e ventoso Marin poteva non capire invece la querimonia di Saba, il suo lamento umbratile, né tanto meno era in grado di apprezzare né di accettare la componente freudiana della sua esperienza».[4]
     Nella poesia di Marin emergono la forte idealizzazione della conoscenza e del reale, proiettati verso un’interpretazione dell’universo simbolico e l’ammirazione metafisica che si fondono al richiamo di una vita vissuta intensamente ma che, nel suo svolgersi, si avvicina e richiama l’alterità della morte.
     Umberto Saba è lo scrittore più sensibilmente amato dai triestini rispetto a Biagio Marin, forse perché è più in grado di elevare e idealizzare la città di Trieste, il caratteristico golfo, le strade, le vie e la natura circostante; il profumo della femminilità poi, pervade la poesia di Saba ed egli la sa trasfondere intensamente nelle proprie liriche: due poeti, Marin e Saba, segnati da un forte senso di appartenenza alla vita e di adesione anche all’epilogo finale.
    L’amore per Trieste, la «transustanziazione e l’unità del reale» rappresentano alcuni leitmotiv che appartengono sia alla poetica di Marin che a quella  di Saba e di Giotti, poeti dalla forte originalità poetica,  anticonformisti che hanno saputo non lasciarsi “prefabbricare” dalla critica dominante, incontrando però alterne fortune.
      Nel saggio dedicato a Saba, curato da Edda Serra, Biagio Marin cerca di spiegare i motivi della poca accoglienza della poetica di Saba per la critica e la borghesia cittadina, e trova in fondo le ragioni anche del proprio percorso di crescita e di lenta affermazione all’interno del panorama letterario contemporaneo: un itinerario difficile, alla ricerca di conferme riguardo le potenzialità del dialetto di provenienza come spina dorsale dell’espressione poetica in cui Marin aveva sempre creduto.
     La questione del dialetto è affrontata nel saggio a cura di Luigi Tassoni, La dialettalità come dimensione contemporanea: da Biagio Marin ad Achille Curcio: qui avviene  il confronto tra due lingue dialettali, quella friulana di Marin comparata con quella calabrese di Achille Curcio.
Ogni esperienza dialettale reca in sé il segno di una precisa contemporaneità geografica e segni tangibili di una sopravvivenza culturale che viene osservata dal critico come passaggio.
    Il confronto con le letterature europee vede l’Italia come grande mosaico privilegiato di lingua e di lingue dove agiscono più registri linguistici. Il divario tra nord e sud si comprende maggiormente grazie all’apporto comparativo di due altri grandi poeti del Novecento, Pasolini e Calvino: due modelli esemplari della poesia italiana a confronto nel saggio, in cui si analizzano gli elementi legati ai significanti fonoritmici  delle poesie di ognuno che vanno a costituire ogni nucleo testuale.
  Una natura della dialettalità osservata come habitat anche per Biagio Marin perché «ogni linguaggio poetico è in sé isola e cosmo» in cui il poeta cerca di dipanare la propria percezione visiva con la percezione della sonorità dei versi poetici.
    Marco Sofianopulo presenta l’idea di un’inedito progetto formale, Litanie de la Madona  del 1936-37, devozioni popolari interpretate in musica che rinviano alle peculiarità dell’orazione litanica, osservate in una prospettiva di ascolto interpretativo assai suggestivo.
    Luigi Bressan, attraverso alcuni significativi Appunti per un ricordo di Amedeo Giacomini, ricorda come lo stesso Giacomini privilegiasse l’aspetto umano del poeta: «non si è scrittori se non si è uomini»;[5] il rinvio è alle drammatiche ore del terremoto in Friuli, momenti terribili in cui il poeta descrive come, nella condivisione del dolore comune, gli fosse nata dentro allora una rabbia indicibile. A spingere lo scrittore verso una purezza della lingua dialettale era stato proprio  «il senso dell’autoctonia, dell’esser nato lì, d’esser uno del luogo: un sentimento di vasta struttura che supera di molto la solidarietà familiare ed ancestrale».[6]
Anche nella poesia di Amedeo Giacomini, in sostanza, possiamo intuire il significato autentico di legame esclusivo con la propria terra d’origine che ha da sempre connotato anche la vita di Biagio Marin.
     Elvio Guagnini in La pace lontana. I diari 1941 – 1950 di Biagio Marin, spiega l’importanza di una raccolta di testi che fanno emergere un sotterraneo intimo connotato da peculiarità tali da esigere massimo rispetto nella lettura. È come violare un proprio diario, in cui confluiscono tutti gli stati d’animo: incertezze, dubbi, momenti esaltanti, ma anche contraddizioni, autocritiche, analisi interiori e psicologiche. Diari che devono necessariamente essere letti come testimonianza lucida e consapevole dell’evolversi della realtà civile e politica italiana.
 Edda Serra in  La pace lontana: chi leggerà i silenzi? conferma come la pubblicazione di questi diari consenta di capire e conoscere in profondità la caratura etica, estetica e l’alto valore della poesia di Biagio Marin.
     Maria Angela Riva ci propone invece l’intenso ritratto di Gino Marchetot Storia di un restauratore d’altra generazione. A Marchetot  si deve il bellissimo restauro del Duomo di Udine, il primo artista ad applicare  la teoria dell’ “integrazione delle lacune a tratteggio verticale” sotto la direzione di Cesare Brandi, grande esperto di restauro. Il saggio ripercorre attentamente la vita di Marchetot e il rapporto del restauratore con le città del Friuli Venezia Giulia.
 Tra gli innumerevoli lavori di restauro vanno citati quelli al battistero del duomo di Udine, i restauri ai pannelli alla basilica di Grado e alla chiesa di San Pantaleone a Spilimbergo, i lavori alla chiesa di San Pietro di Zuglio, della Chiesa di Santa Maria in Bevazzana di Latisana e al castello di Udine. Alla morte di Gino Marchetot, all’«artista d’altra generazione, Biagio Marin dedicò un intenso scritto in prosa e uno in versi.
 Poeti in dialogo Il carteggio Betocchi-Marin  a cura di Maria Chiara Tarsi, restituisce una cospicua corrispondenza in cui tornano circolarmente i motivi già accennati precedentemente: l’isolamento letterario che ha da sempre connotato l’esistenza di Biagio Marin, una profonda sensazione di inadeguatezza e di costernazione che pervade l’intera raccolta epistolare: dalla superficialità e marginalità che portano inevitabilmente ad una rara accoglienza favorevole della critica del dialetto gradese, i mancati riconoscimenti letterari dati preferibilmente a giovani scrittori emergenti (un caso emblematico è rappresentato dal premio Cittadella) sono tutti aspetti che riaprono le ferite e il dramma esistenziale, rimasti insolubili per Marin.
 Lo scrittore sapeva di poter contare sulla salda amicizia con Carlo Betocchi: traspare dalla lettura delle missive, un’accorata ammirazione per un letterato che Marin considerava di un’intelligenza poetica superiore e a cui poteva rivolgersi in qualunque momento. La forte appartenenza religiosa di Marin diviene  «immanentismo che scopre il divino in ogni momento, in ogni parte della realtà e della storia senza operare distinzioni, che riconosce validità solo all’esperienza intima di ciascun individuo e non a quella comunitaria istituzionalizzata».[7]
Alessandro Scarsella nel contributo “Nessuno prima di lui.Ancora umanità di Manlio Dazzi a quarant’anni dalla morte propone infine una rivisitazione della figura di Dazzi e dei suoi rapporti con altri autori osservati all’interno del panorama del Novecento letterario contemporaneo.
    La biografia del poeta indica un percorso di sprovincializzazione in cui è possibile individuare, nella produzione poetica dello scrittore, elementi di «bi o plurilinguismo alla fonte di una tendenza alla poliglossia culturale accertata e sorprendente».[8] Il corposo epistolario presente alla Marciana di Venezia delinea un ritratto di autore che si colloca a pieno titolo tra la critica militante e la proficua ricerca filologica. La lettura dell’epistolario  rileva, ancora una volta, una preferenza verso una  linea  dialettale che è rappresentata dalle tre aree di maggior respiro critico editoriale  presenti in Italia dalla metà del Novecento: Roma con Pasolini e Dell’Arco, il Veneto, in particolare Venezia con Giovan Battista Pighi e Manlio Dazzi, e  Milano con Vanni Scheiwiller.
        Biagio Marin, un artista, un poeta, un rivoluzionario della cultura, riconosciuto ed elogiato probabilmente tardi, postumo, probabilmente perché alla intellighentia dominante del tempo non piaceva il suo disimpegno letterario, è stato invece in assoluto, un vertice della poesia dialettale italiana: una lingua assolutamente originale, quella che Marin offre ancora ai lettori, creata con un innesto sapiente di dialettalità e lingua colta, impreziosita da neologismi e arcaismi. Un mondo poetico simbolico in cui confluiscono tutta la materialità e la concretezza del paesaggio gradese di allora e di oggi.
  
Mariangela Lando




[1] Centro studi «Biagio Marin» STUDI MARINIANI ANNO XIV/XV N.12/13 DICEMBRE 2007, Pisa Roma Fabrizio Serra Editore, pp. 95-96.
[2] Ivi, p. 13.
[3] Ivi, p. 14.
[4] Ivi, p. 18.
[5] Ivi, p. 39.
[6] Ivi, p. 40.
[7] Ivi, p. 79.
[8] Ivi, p. 176.