Chi ha detto che il diarista si mira e rimira volentieri?
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Avrei voluto che i miei lineamenti si cancellassero. Ricordo ancora la gioia di quando, camminando in fretta e dando appena un’occhiata a una vetrina, questa mi rimandava l’immagine di uno sconosciuto. Quello sconosciuto ero io. Cosa c’era di più bello che non somigliare più a se stessi?[3]
Per altri osservarsi è un’esigenza quotidiana, «per
conservare pieno e reale senso di sé» ritrovando le proprie sembianze, e
Morselli se ne accorge perché privato per una settimana di specchio.[4] Specchio come
rilevamento e riconferma di sé, o specchio come mistificazione di un’immagine
riflessa, che può portare ulteriore confusione in una visione appannata della
realtà, come in una lettera-confessione di De Libero del 1941:
«In tanti anni di confessioni a me stesso ora m’avvedo di aver solamente gridato, strepitato e pianto. Mi pareva di chiarire la mia immagine dentro lo specchio, invece il mio fiato l’ha sempre di più velata e sospinta nel fondo, irriconoscibile ormai»,[5]
o confortare nella lotta contro la
solitudine (scriveva Pavese il 6 novembre 1938: «Passavo la sera seduto davanti
allo specchio per tenermi compagnia...»).[6] Talvolta «strumento
di metafisica paura»,[7] riflette infatti la
«paura di rimaner soli» rapportata alla propria immagine, come nei Taccuini di Barilli, paura atavica e connaturata
all’uomo di qualunque età:
Tutti gli specchi sono pieni di imbecilli.Gli imbecilli hanno paura di rimaner soli.Eppure sono tanti. Tutti i giovani sono imbecilli [La jounesse est une manière d’imbécillité – est une régle infallible]. Tutti i giovani sono imbecilli.Quelli maturi sono ancora imbecilli – continuano ad esserlo.I vecchi non tutti sono imbecilli ma diminuiscono man mano costoro, gli ultimi che non sono.[8]
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D’altra parte, il riflesso moltiplicato genera scompenso:
«Gli specchi. Nella mia stanza ce ne sono quattro o cinque, specchiere importanti. Quando sono a letto mi sembra di aver un’intera famiglia di me stessi: è troppo, e spengo subito il lume».[10]È uno specchio inclinato quello che compare nel titolo dei diari di Soldati, raccolti da Mondadori nel 1975, a rimarcare il filtro della soggettività nella visione del reale: infatti, le tante annotazioni di cronaca e gli incontri non sono mai nudi, ma commentati.
Inoltre, lo specchio torna più volte nei diari Sanminiatelli: in Mi dico addio è strumento per accorgersi,
accidentalmente, della propria estraneità, riconoscendo in uno sguardo
distratto «l’antipatia di una forma allo specchio prima di riconoscere in
quella figura noi stessi».[11] Nel 1956, il
«ribrezzo» provoca il rifiuto della propria immagine, mentre tempo prima dava
la «voluttà di trasformarsi in
quell’aspetto di se stesso che gli faceva orrore», per provare il
«piacere dell’umiliazione».[12] Il Leitmotiv torna anche nell’explicit del
20 dicembre 1958, che racchiude il titolo dell’opera: «Mi guardo allo specchio
come uno che si dice addio».[13] Nel diario
successivo, Il permesso di vivere, lo
specchio è testimone dello scollamento tra nome e identità:
18 Dicembre [1960]. Davanti allo specchio mi chiamo per nome e non sono più io. Il mio nome (questa maniera di essere designato), appartiene a tutti coloro che vogliono pronunzialo. Campeggia rigido, pesante come una condanna. La mia immagine allo specchio evoca soltanto un nome.[14]
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Distorte, irridenti, talvolta inautentiche o storte, altre ancora piuttosto fedeli e soggettive: le immagini degli specchi e le distorsioni oniriche riflettono il chiaroscuro novecentesco che cerca l'io anche quando la visione è offuscata, e spesso non può che ritrarlo da prospettive oblique e ombrose.
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*tutte le immagini rielaborano foto dell'installazione "Passi" di Alfredo Pirri; sono state tutte quante scattate (previa autorizzazione del personale della galleria) alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, dove l'installazione era in mostra semipermanente nel 2011.
[1] G. Prezzolini, Diario 1900-1941, Milano, Rusconi, 1978, 204. Altrove,
tuttavia, lo specchio è visto da Prezzolini con odio: «22 febbraio 1905. Sono
veramente lo spettatore di me stesso. La vita è come un teatro, con una
quantità di personaggi, ma uno di questi sempre in scena. Il mio compagno
indivisibile. Mi par d’essere uno specchio sul quale hanno inciso la mia
faccia. Passano sempre nuovi fantasmi, quella rimane. Troppo. Purtroppo». E si
veda qui la ricorrenza dell’immagine del diarista-attore di cui si parlava
all’inizio del paragrafo.
[2] U. Ojetti, Taccuini, a cura di P. Ojetti, Milano, 1954, 149.
[4] G. Morselli, Diario, a cura di V. Fortichiari, con prefazione di
G. Pontiggia, Milano, Adelphi, 1988, 10.
[5] L. De Libero, Borrador. Diario 1933-1955, a cura di L. Cantatore e
con prefazione di M. Petrucciani, Torino, Nuova Eri Edizioni Rai, 1994, 133.
[6] C. Pavese, Il mestiere di vivere. 1935-1950, nuova edizione condotta sull’autografo a
cura di M. Guglielminetti e L. Nay, Torino, Einaudi, c.1990, 134.
[7] B. Sanminiatelli, Quasi un uomo, Milano, Rizzoli, 1968, 221.
[8] B. Barilli, Capricci di vegliardo
e taccuini inediti (1901-1952), a cura di A. Battistini e A. Cristiani,
Torino, Einaudi, 1989, 103.
[9] Ivi, 42.
[10] Ivi, 65. Si veda anche il già citato passo dai taccuini di
Pirandello: «Io mi vedo vivere come davanti a tanti specchi quanti sono gli
occhi che mi stanno a guardare» (L.
Pirandello, Taccuini, in ID., Saggi, poesie, scritti vari
[1960], a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori, 19733,
1270).
[11] B. Sanminiatelli, Mi dico addio, Firenze, Vallecchi, 1959, 57
[12] Ivi, 403.
[13] Ivi, 552.
[14] B. Sanminiatelli, Il permesso di vivere, Milano, Bompiani, 1963 171.
[15] E. Cecchi, Taccuini…, 73.
[16] G. Morselli, Diario…, 15.
[17] C. Cassola, Fogli di diario…, 59.
[18] Ivi, 59-60.
[19] Ivi, 61.
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