di Fabio Bartolomei
Edizioni e/o, 2012
pp. 275
Poi si dice ma CriticaLetteraria è utilissima anche per chi vi scrive. Ripesco un’intervista a Fabio Bartolomei di Lorena Bruno, del marzo scorso, prendo il libro e dalla prima all’ultima pagina gli voglio un bene… perché è scattato subito un sentimento, immediato e profondo, per il protagonista. Un talento, di quelli che non sai se chiamarli geni o ritardati, di quelli che i compagni di materna o scuola media non scelgono quando fanno le squadre e al liceo additano sarcastici salvo ricordarsi di loro la mattina del compito di greco.
Al Santamaria, a quattro anni sa leggere, scrivere e far di conto. Non sfoglia Topolino, si diletta con il Devoto Oli, la Treccani e i quotidiani per tenersi informato. E non gli sfugge niente, ricorda ogni cosa. Evidenzia dei problemi, tipo brucia le tende a casa e ha lampi di disturbi pervasivi, tuttavia parrebbe un predestinato alle più prestigiose università e multinazionali del mondo. Ma c’è un “ma”: Al Santamaria, il mondo vuole salvarlo. Magari da quelle università e da quelle multinazionali. Partendo dalla sua famiglia.
C’è un passaggio scoppiettante del libro, realissimo perché qui non è che parliamo di Peter Pan. L’isola c’è, esiste e si chiama Italia ed è un’isola oramai infestata, a rischio irrecuperabilità anche se a un certo punto Al prova a redimere perfino i dipendenti dei ministeri… della repubblica. Fabio Bartolomei accompagna la crescita di Al alle mutazioni a singhiozzo che coinvolgono il nostro paese negli ultimi quaranta anni: politiche, sociali, di costume. E siamo infatti al 1974 quando si tiene il referendum sul divorzio promosso da Amintore Fanfani e dalla Dc. Dopo essersi recati alle urne, i genitori tornano a casa e confessano di avere votato “no” all’abrogazione della legge del 1970 che aveva introdotto questo istituto nel codice civile. Al che fa? Li rimprovera usando le frasi esatte di un comizio di Fanfani sentito per radio. Perché questa cellula di cui è geloso, composta da un padre che canta a meraviglia Elvis Presley, una madre che fa ciambelloni strepitosi e una sorella schizzata ma che si rivelerà poi dolcissima, è il fondamento degli affetti i quali nutrono intimità e sogni i quali a loro volta oliano il motore che forgia il suo essere. Senza famiglia Al sarebbe vuoto. Sapere che i suoi componenti hanno votato a favore di un qualcosa che ne contempla la separazione lo fa trasalire.
È in questo microcosmo familiare – somigliante finché ci sono pure nonna e zio vivi ai Malaussène di Belleville – che Al sceglie liberamente a cosa dare urgenza, maturando un’ottica di amore e una visione dell’esistenza dove non esiste spazio per soldi e successo fini a se stessi. Semmai lo spazio privilegiato è riservato al sogno e alla sua esatta realizzazione, perché i sogni non esistono per essere raccontati ma per avverarsi, all’entusiasmo, anche quando è difficile da comprendere da parte degli altri, alla voglia di scoprire, al desiderio di regalare un sorriso per il quale basta un massaggio speciale, “il trattamento principessa di Monaco” che il resto della famiglia riserva alla madre mentre nulla svelo sul “trattamento principe di Galles” di cui è il padre a usufruire.
Così, la speranza di una casa ideale che porta la famiglia Santamaria in giro per Roma alla ricerca dei cartelli “Vendesi” per interminabili domeniche, una mera speranza perché i genitori di Al sanno che potranno permettersi sempre e solo catapecchie umidicce, porta Al a concepire un progetto pazzesco, da strabuzzare gli occhi eppure innocente e che finisce per convincere tutti. Non soltanto i protagonisti del libro, la sorella in primis che da indiana metropolitana diventa un’impiegata consapevole di avere il fratello migliore del pianeta, bensì noi lettori che tra infiniti spunti di riflessione e risate di gusto ci lasciamo conquistare dalla commovente delicatezza di questo bimbo-ragazzo-uomo. Che c’insegna che il trascorrere degli anni non è un attività a perdere ma l’occasione di aggiungere sempre un di più. Pensiamoci un attimo, è una cosa da sognatori attivi, come possono essere gli adulti e non i bambini che non vogliono crescere.
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