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#BookCity e #CriticaLibera - La rivolta della poesia

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GUIDO OLDANI, IL REALISMO TERMINALE, MURSIA 2010

La similitudine rovesciata e la rivolta della poesia


Venerdì 22 novembre 2013, nell’ambito delle manifestazioni milanesi di Book city e nella suggestiva cornice dell’ex chiesa di San Carpoforo in Brera, ha avuto luogo un interessante convegno di poetica. Argomento: il libro di Guido Oldani, uscito per Mursia alcuni anni fa, Il realismo terminale: un’originale analisi della poesia contemporanea e del suo destino, che sta suscitando un interesse crescente da parte della critica e del mondo accademico.

Comincerei a presentare quest’opera con una «similitudine rovesciata», molto simile a quelle che l’autore stesso scopre come caratteristiche della poesia contemporanea: il saggio di Guido Oldani sul realismo terminale è simile a un dado Knorr. E non solo in quanto concentrato e gustoso, ma anche perché raccoglie in se stesso l’elaborata maestria dell’arrosto (cioè di oltre un secolo di storia della poesia).

Oldani parte da lontano, dal minimalismo ironico del crepuscolarismo – le famose “buone cose di pessimo gusto” – e vede nel futurismo le radici di almeno due caratteristiche fondamentali del «realismo terminale»: l’idolatria della meccanica e l’estetica della velocità.
Un’estetica che poi si sposta sull’ oggettualità assoluta (“dislessica e disgrafica”, la chiama Oldani) di ermetismo e surrealismo. Infine sull’oggettualità per così dire sociologica del neorealismo di metà Novecento. Nel frattempo – ma soprattutto da metà Novecento fino a noi – l’incremento della velocità a dimensioni prima sconosciute, einsteniane, ha creato le condizioni per quell’ invasione degli oggetti che Oldani battezza REALISMO TERMINALE: una vera e propria mutazione antropologica, quasi genetica della nostra percezione sensoriale. Una dittatura estetica, così la definisce l’autore. Ma – come dice Brodskij, «l’estetica e’ madre dell’etica»: così accade che l’uomo del Duemila sia in toto ingordo di oggetti, o meglio di prodotti. E’ insaziabile e insieme eternamente insoddisfatto: negli acquisti, nel tempo libero e negli “hobby”, nella sessualità, nei viaggi, nella vacanze, nel proporre la propria immagine. Nel terzo millennio sembra quasi che essere intelligenti significhi riempire il tempo facendo mille cose, non importa con quanta convinzione e con quale profondità.

In poesia il realismo terminale ha generato, come suo braccio armato estetico, la similitudine rovesciata. Essa non è un accidente; è un passaggio necessario, che va incrementandosi sempre più. La similitudine rovesciata non è né un bene né un male: semplicemente è accaduta e continuerà ad accadere. Bisogna partire da questo fatto e tenerne conto.

Come il dado utilizza il concentrato dell’arrosto per condire, così Oldani usa l’essenza della storia letteraria proprio per sàpere: cioè per capire, per conoscere e far conoscere al lettore la chiave di volta di ciò che sta accadendo. Oldani ricava la definizione del futuro dalla lezione del passato, così come un geografo disegna la mappa di un luogo dopo esserci stato. Oldani non si chiama mai fuori dalla storia che descrive: anzi, egli stesso nella sua poesia, molto prima di teorizzare la similitudine rovesciata, l’ha ispezionata con una lente d’ingrandimento. Questo appunto perché, quando si vuole far le cose sul serio, bisogna arrivare in un luogo e conoscerlo bene, prima di definirlo. Lo stesso si potrebbe dire a proposito dell’ironia, che Oldani ha certamente eletto a ingrediente raffinatissimo della sua poesia, ma che è nello stesso tempo un segno distintivo del realismo terminale nel suo complesso: e insieme, scrive l’autore (p.17) l’unica “fionda” da poter lanciare contro la pesantezza e l’elefantiasi da gigante Golia dei prodotti che ci sommergono.

Insomma Oldani, poeta e teorizzatore del realismo terminale, ne è anche – potremmo dire – il terminatore: un po’ come Nietzsche considerava se stesso paziente e terapeuta del nichilismo. Fra realismo terminale e nichilismo ci sono, del resto, evidenti analogie (anche se il concetto non è identico). Pensiamo alla dissoluzione nichilistica dell’ipertrofia oggettuale nei prodotti evanescenti – ma sempre prodotti sono! – della realtà virtuale. E qui va fatta qualche piccola osservazione. Come hanno intuito soprattutto Alessandro Carrera e Vincenzo Manca nel volumetto miscellaneo La faraona ripiena (Mursia 2012), parlando di virtualizzazione dell’oggetto, anche a me pare che la rete non sia affatto il superamento della pandemia oggettuale, ma la sua perfetta realizzazione. Gli oggetti virtuali, è vero, non sono tangibili: però sono i prodotti per eccellenza, perché rispondono in tutto e per tutto agli scopi e ai bisogni che hanno fatto partire l’intero processo di invasione. La rete sfugge, sembra non esistere, ma proprio per questo dà un’illusione di possesso ancora più rapido: anzi, in rete la merce può essere acquistata senza neppure spostarsi, come se fosse lei a correre verso di noi e non il contrario (un aspetto particolare ed estremo di quell’ inversione fra soggetto e oggetto, che è tipica del realismo terminale). La merce in rete è merce percepita solo con il senso della vista, desiderata, raggiunta, posseduta, consumata, cannibalizzata, infine digerita e dissolta, proprio come si sogna di fare con quella immediatamente disponibile sul mercato.

Che fare, dunque?
Oldani ce lo dice in tutto il suo lavoro poetico, prima ancora che in questo saggio. E ci dice in sostanza questo: se il realismo terminale è un capovolgimento fra soggetto e oggetto, il poeta deve immettersi nel flusso della Storia, essere consapevole del punto in cui si trova e INCARNARE UNA NUOVA FORMA DI SOGGETTIVITA’ NON PIU’ INGENUA. Non esiste risposta univoca a una mutazione che, se non è di per sè una degenerazione, può diventarlo – e questo il poeta ce lo dice, lo si legge fra le righe. Ma non è così semplice, non vi sono ricette: ciascun autore potrà e dovrà trovare la propria  risposta nell’autenticità cosciente della sua poetica. Dovrà essere, come diceva la Cvaeteva, inattuale ma contemporaneo. E’ come se la nostra epoca ci avvertisse di questo: tutto ciò che si fa è in realtà un rifare. Tuttavia è ancora possibile un’autenticità della parola, un’ ironica resistenza all’usura: come scrive Oldani, essere “terminali” può significare per il poeta scegliere il bozzolo-farfalla o imprigionarsi in un bozzolo-sarcofago. I rimedi potranno essere omeopatici, come ha fatto lo stesso Oldani utilizzando in maniera ironica la similitudine inversa; oppure differenti (si possono leggere tutti i contribuiti della Faraona ripiena). Ma dovranno comunque ripartire da una consapevolezza matura del momento che stiamo vivendo e del posto che la nostra poesia occupa e intende  occupare.

Chiuderei con l’analisi-lampo di un testo famoso e molto raffinato di Oldani, La lavatrice. Con questa lettura intendo dimostrare che la similitudine rovesciata è a tal punto presente nella scrittura del realismo terminale da esservi talora imbozzolata come in un enigma.
La cenrifuga gira come un mondo/e i suoi abitanti sono gli indumenti/riposti dalla coppia dei congiunti./Sia avvinghiano bagnati in un groviglio/i rispettivi panni in capriola/sono rimasti questi i soli amanti/ quegli altri se si afferrano è alla gola., (G.O)
Raffinatissimo testo, costruito su una similitudine rovesciata enigmatica e ironica, di cui soltanto alla fine si comprende pienamente il senso (ed è anche, come molto spesso in Oldani, un senso amaro). Sembra tutto chiaro: è il paradosso della vicinanza-lontananza; appena accennato, c’è anche il dramma della violenza domestica.Ma se si analizza il testo con attenzione si scopre qualcos’altro. Sette versi perfetti fatti di rime e assonanze regolari e simmetriche, quasi geometriche, persino di rime al mezzo (abitanti/amanti). Ovunque salvo in due soli versi: MONDO e GROVIGLI, che per questo spiccano isolati, quasi fossero tracciati con l’evidenziatore. Isolando questi due termini l’autore sembra volerci dire, con un’altra similitudine rovesciata da trovare con una specie di caccia al tesoro, che il mondo stesso è un groviglio, un paradosso incomprensibile. Anzi: il contenuto etico della poesia trae forza proprio da questa similitudine imbozzolata che è in qualche modo la matrice delle altre (il mondo-centrifuga, gli umani-indumenti, gli amanti-panni – un termine, lo si noti bene, più informale e famigliare di “indumenti”-, stretti in un abbraccio coatto mortale) .

Concludendo: davvero la poesia, come scrisse il gesuita settecentesco Tommaso Ceva, fatto proprio da Montale, è un sogno in presenza della ragione, cioè un’operazione altamente consapevole e cosciente. La parabola del realismo terminale ci consegna questo avvertimento: la poesia, se vuole essere vitale, deve diventare sempre più cosciente.