L’edizione Mondadori in mio possesso delle “Lezioni Americane” di Italo Calvino presenta un’appendice sulla sesta lezione, la più ipotetica di tutte, che nelle intenzioni doveva essere dedicata al valore della consistenza. Non vi sto a fare il riassunto delle puntate precedenti perché ci ha pensato Francesca Cioce con le sue “Pillole d’autore” dello scorso 23 luglio e passo direttamente a questi appunti conclusivi. Prima di entrare nel vivo mi piace ricordare un aneddoto: incredibile ma vero mi sono ritrovato una sera su Twitter a ragionare di consistenza calviniana con altri soggetti. Non tutto dei social network è da buttare.
Calvino parla di incipit e finali ed è una cosa spettacolare: il punto di partenza per uno scrittore è scontatamente la pagina vuota. In principio è il non scritto e in potenza lo scrivere su tutto. Il mondo, l’universo sono davvero a disposizione. Ma mai potranno essere utilizzati in toto per oggettive barriere scientifiche, cognitive ed editoriali: dunque, la prima operazione è di estrazione, isolare un sentimento, un fatto, un frammento dalla molteplicità.
Questa enorme riduzione è una soglia, la porta d’ingresso nel vuoto del non scritto con un elemento reputato in grado di riempirlo. Ciò che rileva è che quando ha selezionato il frammento, lo scrittore ha posto il limite doveroso al suo lavoro, ha riconosciuto che la scrittura non è libertà, o meglio è libertà di scelta iniziale dopo diventa questione di regole.
La funzione isolatrice fra gli antichi ma anche fino all’Ottocento era affidata a un ingresso specifico prima che la rappresentazione effettiva cominciasse. Nei teatri greci della musa, in quelli rinascimentali di un re, di un indovino o di un messaggero che annunciavano al pubblico ciò che stava per vedere. Dobbiamo ricordare il Cantami o diva… di “Iliade”? Più esplicito di così.
Con il Novecento si è perso questo modo di esordire che era veramente una sorta di rito ma non per questo gli scrittori hanno rinunciato a isolare e a rendere, in ultima analisi, ogni incipit arbitrario. Tuttavia è il mezzo per rendere complementari entità che paiono opposte: memoria e oblio. Lo scrittore narra proprio perché crede di ricordare storie dimenticate: la “sua” storia possibile è resa unica dal racconto ma questo succede se ciò che ha isolato dice qualcosa sul senso della vita. Non la vita di chi scrive ma la vita degli altri.
Per riassumere: se la cornice può essere generica come una scena attica – ma ne abbiamo esempi splendidi anche nel più moderno dei romanzi come “L’uomo senza qualità” di Robert Musil: Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente – e l’incipit muovere da un dettaglio, da una situazione del molteplice risvegliata, perché si racconta sempre qualcosa di utilizzato, il tessuto, la connessione di idee, assume comunque valenza morale.
La consistenza dei finali è minore di quella degli incipit perché la modernità li lascia spesso indeterminati. A volte volutamente, altre volte meno. Emblematico è il caso del “Castello” di Kafka. Esistono finali che per essere ricordati ricorrono a una consistenza metafisica, ricercata come una costruzione teologica aristotelico-tomistica. Le tre cantiche della “Divina Commedia” si chiudono con la stessa parola: E quindi uscimmo a riveder le stelle; Puro e disposto a salire alle stelle; L’amor che move il sole e l’altre stelle. Però, obiettivamente, l’incipit del poema resta più indimenticabile.
Non è che i finali aperti siano per forza poco convincenti, pure la vita in fondo è un non finito, è altrove. Se vuole però dotarsi di consistenza un finale ha da essere emblematico ovvero proiettarsi retrospettivamente sulla narrazione che precede per metterla in discussione, l’esempio di Calvino è Flaubert con la sua “Educazione sentimentale”, o folgorare con un’agnizione aggiungo io, citando “La versione di Barney” di Mordecai Richler, per me il Libro dei Libri.
Al termine di questa sesta lezione, Calvino tira un po’ le somme ed esprime un concetto epifanico, di grande fiducia nella scrittura. Lo fa dicendo: «L’universo si disfa in una nube di calore, precipita nell’entropia, tuttavia possono resistere zone d’ordine, forme cristallizzate: l’opera letteraria è una di queste». Non suona tipo le «navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione» e i «raggi B nel buio vicino alle porte di Tannhäuser» in “Blade Runner”? Però noi crediamo che la grande letteratura non sia lacrime nella pioggia e non sia composta da momenti che andranno perduti nel tempo. La grande letteratura replica ma non è una replicante.
THE END
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