di Mario Desiati
Mondadori, 2013
pp. 197
Dopo le prime pagine di questo nuovo romanzo di Mario Desiati è subito Messapia arcaica. Ogni volta che m’immergo nei libri del giovane scrittore martinese preferisco chiamarla così questa regione del sud. Non Puglia. Al limite Apulia. I popoli remoti, il loro dna, le loro ombre è come se vagassero ancora, alla ricerca di un rito apotropaico e di tradizioni che, inchiodate dal tempo, rendono l’atmosfera carica di pregiudizio.
I contemporanei si confondono con i loro antenati. A partire dai nomi: il protagonista Francesco è soprannominato Veleno perché un suo trisavolo avvelenò il padrone e divenne proprietario di terre. Il riscatto sociale nel Levante è passato attraverso questi gesti, non la lotta di classe. Il latifondo cambiava semplicemente di titolo catastale, altrimenti stessi solchi nel terreno, stesse pietre, stessi mattoni a secco, stesso sole, stesse chianche, stessi trulli, stessi dolmen. Il primo amore di Veleno sono «i muri che dividevano la vigna dalla strada», un sentimento di cui nonna Comasia è complice, grazie a detti di saggezza popolare che un tempo, fra murge e gravine, venivano pronunciati in greco e ora in dialetto. In una valle che pare fiabesca, a forza di coni affioranti dall’edera, e invece ha risvolti maligni. La valle d’Itria, rivestita di bianco e di feste patronali. Ma anche di spose infelici, per riecheggiare il titolo di un precedente romanzo di Desiati, e di amori proibiti. Perché qui si perdona, si condona, «un omicidio per indigenza o per onore», delitti «accettati dalla comunità con consapevolezza», mentre può essere follia criminale un affetto reciproco.
Riconosco di essere parziale perché sono due anni che vado in Puglia, anzi in Messapia, e passo attraverso le strade che incrocio poi nei romanzi di Desiati. E inevitabile scatta la suggestione. Rivedo quei paesaggi, rivedo il mostro: il petrolchimico. La valle d’Itria si raggiunge lasciando la costa all’altezza di Fasano. È un altopiano dove la sera rinfresca e schiere di tarantini si fiondano creando file infinite lungo una delle tante statali della morte, a doppia corsia alternata, di questo paese. Vorrei accompagnare la scoperta del libro proprio seguendo questi accenni da mappa del Touring. Perché sono snodi decisivi, entrambi vissuti dai due giovani maledetti: Veleno, appunto, e Donatella. Il fine della loro esistenza sarà vivere liberi assieme. Sul perché non sia possibile, taccio. Dovrete entrare da soli nella trama e lasciarvi imprigionare dal suo tenace irrazionalismo.
Dunque: il mare e il petrolchimico. Il mare, dove «antiche religioni sostengono che si rifletta il volto di Dio», è la meta che Veleno e Donatella si danno un pomeriggio. Diventa tuttavia un castello kafkiano quando a un passo dal traguardo si profila un ostacolo legale. L’Adriatico assume allora la consistenza di qualcosa di bramato, agognato, un tramite spazio-temporale che lega istanti di vita lontani, attese ostinate. Prima di riuscire a confessare davanti a un «arenile bastardo» i rispettivi pensieri che le mani hanno tradotto in masturbazioni, c’è da espiare tanto e puntare la stessa Cinquecento in direzione opposta, verso lo Ionio, dove un carcere è contermine al complesso siderurgico che rende l’aria appestata come di odore di carogne. Dinanzi alle sbarre viste dall’esterno, Veleno raggiunge il delirio, grida un nome che pare venire da un coro ditirambico, somiglia a un Orfeo che invoca Euridice in procinto di essere risucchiata definitivamente nell’Ade. Questa straordinaria capacità di fare specchiare senso primitivo di una terra e sua dimensione attuale è la cifra stilistica di Desiati.
Come Annalisa D’Efebo del “Paese delle spose infelici”, Donatella Telesca esordisce avvolta da un’aura di mistero, si manifesta come una dea madre e si trascina come una vittima sacrificale. Le urla laceranti di entrambe imprecano indulgenza ma non commuovono nessuno. Eccetto un Veleno qualsiasi, il nome scelto per i protagonisti maschili di entrambi i romanzi. Questo Veleno è più morboso del precedente, non ricerca neppure una vocazione minima o un lavoro precario, si lascia andare al senso di degrado e abbrutimento che può permeare una vita senza scopo. Il suo, unico, è vedere Donatella uscire dalla cella da cui sogna che nel frattempo gli scriva. Poco importa che non indossi l’abito bianco, anzi meno cose indossa e meglio il mare potrà accoglierla nel suo ventre di maggio. Quando anche i ricordi più cupi scompaiono e perfino i fantasmi della valle d’Itria e di Martina Franca si dissolvono grazie alla enigmatica bellezza e alla tragica generosità di destini ostracizzati.
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