In viaggio non cerco la libertà ma la cattura e la prigionia. Se si presenta un’occasione da fuorilegge, quella è la mia. Una volta dentro, ai luoghi s’intende, erigo muraglie da cui il tempo resta fuori senza trascorrere. Non mi metto a scavare gallerie per evadere. Al più, un cunicolo tra cella e cella. Come Edmond Dantes, ma lui era a Marsiglia mentre io a Parigi.
C’è bisogno di ricordare Victor Hugo e il suo capitolo di “Notre-Dame de Paris”? Sì, c’è bisogno: Parigi a volo d’uccello, «dall’alto delle sue torri», «ancora divisa in tre città del tutto distinte e separate… la Cité , l’Université, la Ville », frammenti di un unico corpo, tessuto di strade «curiosamente intrecciate». La Senna bagnava cinque isole: pare d’essere ai tropici. Di notte si sbarrava il fiume ai due estremi e la città dormiva tranquilla. Poi i ponti e i tetti. E le soffitte dove si affermava lo stile bohémien, si fumava oppio, si passavano notti in compagnia di prostitute e si scrivevano versi immortali. Vale la pena rileggerlo.
La rive gauche. Me ne innamoro ogni volta che pronuncio questo nome. E lì, hai voglia giocare agli artisti: Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, un amore che ha del mitico, con il primo che, a forza di sbuffare la pipa, rifiuta il Nobel perché «nessun uomo merita di essere consacrato finché è in vita» e la seconda che afferma «donne non si nasce, si diventa», un motto che è già una riflessione potentissima. “Le deux magot”, il Quartiere Latino dove c’è una sala da tè che ancora si chiama “I giacobini”. Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio… cantava Fabrizio De Andrè. Barricate e cariche, Cohn-Bendit che occupa la Sorbona e oggi vi tiene conferenze. Nessuna condanna, la comodità attrae, i lacrimogeni molto meno, anche se sbandierarlo ai quattro venti non è politically correct.
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Un giorno ho fatto una passeggiata dalla casa natale di Edith Piaf, a Belleville, fino a Château Rouge e sono passato da Israele, mondo islamico, canal Saint Martin – che è traffico turistico ma non a lume di candela come nel bateau mouche – India, Bangladesh, Pakistan, Turchia, Camerun, Senegal e Haiti, nello spazio di pochi isolati, per tuffarmi infine dentro i magazzini Taty a comprare un guardaroba a buon mercato. Una Parigi proletaria e multietnica, giudei bellicosi e caraibici per nulla raccomandabili, molto viva e ribelle dove abbondare di Nikon. Attenzione però a puntare l’obiettivo verso le bellissime stoffe multicolori dei negozianti provenienti dall’Africa equatoriale. Magari pensano tu voglia imprigionare chissà quale chakra ed escono minacciandoti esplicitamente. Belleville è l’ambientazione dei romanzi di Daniel Pennac, dove articola l’esistenza la sciamannata famiglia Malaussène, e soprattutto di quel capolavoro assoluto che è “La vita davanti a sé” (La vie devant soi) di Romain Gary, con gli emarginati, la Francia multietnica e i suoi problemi, narrati ben prima di Jean Claude Izzo, Fred Vargas e, appunto, Daniel Pennac.
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Quella che non sopporto è la Parigi delle boutique. Come faccio a spiegarlo? Ricorro a un campione che mi ha fatto sognare come te nessuno mai: Michel Platini. Capace di battute che di primo acchito appaiono ispirate da humour britannico e che invece suonano molto film francese. Non a caso. Noto con piacere che non ha perso invecchiando il gusto della sottile metafora, dispensato generosamente durante la carriera agonistica. Indice di benessere oltre che d’intelligenza. Ecco allora che quando si è profilato l’arrivo al Paris Saint Germain di David Beckham, icona della trasmutazione genetica del calcio da sport a can can mediatico protetto da bodyguard, un Platini imborghesito e con una perfida pancetta è riuscito comunque a commentare: «sarà un bene per lo… shopping». Come a ricordare a questo tipo da copertina di Vogue che quando giocava Michel una passeggiata al Musée Carnavalet aveva la stessa dignità di una American Express sventolata, spice girl e tatuaggi compresi, negli Champs-Élysées. Sintetico e crudele. Perfetto.
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A Chartres il maestro che ha lavorato al portale settentrionale ha infuso vita a Melchisedec, Abramo e Mosè, affrontando il compito con spirito nuovo: le statue per lui non erano mobilio sacro da appoggiare sui portali e sui transetti ma figure dotate ciascuna di una propria individualità. Il drappeggio è governato con maestria, come se l’artista fosse orgoglioso di padroneggiare una tecnica che risaliva ai greci e che il romanico aveva trascurato. Con questa cattedrale comincia l’arte moderna.
Sono solo due chiacchiere, sia chiaro, su una città ospitata in innumerevoli pellicole e con una storia artistica incommensurabile. Ma visto che questa è Critica Letteraria, né pittorica né cinematografica, ci fermiamo. Solo un inciso: ogni volta che ho camminato di notte a Parigi, mi sono sempre ricordato i passi nell’oscurità di Jeanne Moreau in “Ascensore per il patibolo”. Si perché fra truffautiani e godardiani, lo ammetto, pure in questo caso ho una terza via da proporre: Louis Malle. Au Revoir.
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