#vivasheherazade
Nell’articolo
del 1979 Le temps des femmes Julia
Kristeva scriveva che sono tre i momenti storici che hanno segnato il progresso
delle donne nella presa di coscienza della loro soggettività. Il primo è quello
in cui le donne cercano di inserirsi nel tempo lineare della Storia, quello della
lotta politica per i diritti, segnata dalle battaglie delle suffragettes; la
seconda fase è quella post-sessantottina, in cui le rivendicazioni femminili
hanno implicato un’inevitabile elaborazione culturale su problemi
come la sessualità, la riproduzione, la violenza domestica; la terza fase è,
infine, rappresentata dalla coesione di entrambe entrambe le attitudini: “l’inserimento nella storia e il rifiuto radicale delle limitazioni imposte
dal tempo della storia a un’esperienza condotta nel nome dell’irriducibile
differenza”. [1]
Differenza:
termine chiave della riflessione femminista che, dagli anni Settanta, si
concentra su questioni identitarie. Quale dovrebbe essere per le donne il
modello a cui potersi rispecchiare per affrancarsi dalla tradizione
patriarcale? Può il soggetto maschile rappresentare correttamente la donna?
La
prima a dare una risposta è la filosofa belga Luce Irigaray che, fin dalla
pubblicazione del suo primo libro Speculum.
L’altra donna (1974), è stata
considerata una delle principali rappresentanti della teoria della differenza sessuale. Le donne, secondo la Irigaray, non
possono essere correttamente descritte da una società dove perfino la lingua
che usiamo quotidianamente è connotata sessualmente. Ad esempio, dicendo
“l’uomo è mortale” saremmo tutti d’accordo che con la parola “uomo” si intenda
“l’umanità”. Ma se diciamo “la donna è mortale”, arriveremo alla logica
conclusione che l’uomo è, invece, immortale. Il soggetto maschile, quindi,
porta con sé sia il segno a lui proprio sia un segno universale, mentre invece
la soggettività sessuata della donna è negata dal linguaggio.
Conseguenza
del linguaggio maschile, neutro solo in apparenza, è un maschilissimo ordine simbolico proprio alla
società a cui apparteniamo. Come scrive la filosofa e accademica Adriana
Cavarero nello splendido Nonstante
Platone (1990):
Nel vasto campionario della tradizione nessuna figura può risultare adeguata alla soggettività femminile che ne fa richiesta, proprio perché in questa tradizione è appunto tale soggettività femminile ad essere occultata nelle maschilissime figure di uomini e nelle figure di donne pensate dagli uomini. [2]
Immenso
il catalogo delle figure femminili nascoste dalle immagini dei loro ipertrofici
compagni. Penelope accanto a Ulisse, Era accanto a Zeus, Margherita accanto a
Faust. Mai da sole nella loro piena e autonoma soggettività di donne.
Almeno
due domande sorgono a questo punto. Cosa può fare la donna per affrancarsi da
tali retaggi della tradizione patriarcale? E poi, ha veramente senso parlare di
questi retaggi? Vado ancora oltre e mi chiedo: di chi è il problema oggi, se
esiste? E, ancora più genericamente, cosa vuol dire parlare di femminismo?
Cercherò
di rispondere partendo dalla fine.
Prendiamo
una donna bianca, occidentale e mediamente benestante e postuliamo i suoi ormai da tempo acquisiti
diritti al voto, al divorzio, all’aborto (se poi quest’ultimo in Italia sembra
essere garantito da una legge che si applica arbitrariamente è un altro
problema). La donna in questione sembra godere in tutto e per tutto degli
stessi diritti dell’uomo. Tuttavia, mentre l’uomo può tranquillamente decidere
di dedicarsi ai suoi studi e alla sua carriera fino ai quarant’anni e oltre, e
solo in seguito – eventualmente – formare una famiglia e fare dei figli, la
donna vive oggi uno scardinamento
temporale tra cultura e natura. Se deciderà di soddisfare il suo bisogno di
maternità dovrà farlo entro i tempi biologici che le sono propri e non senza
sacrifici, perché la società consumista e capitalista ci chiede di farlo a
discapito della carriera. Le disgraziate difficoltà imposte dalla crisi
economica trovano terreno fertile nella malcelata tradizione patriarcale, che
impregna la società ancora oggi e che non prevede che la donna venga
gratificata dal proprio lavoro e diventi autonoma grazie a esso. Il retaggio di
una cultura maschilista è evidente, la donna è posta di fronte a una scelta. Può
succedere allora – e non è raro – che la
donna tiri fuori le unghie, che cerchi di farsi valere in tutti i modi, che si
divida tra casa e lavoro. Nonostante le lettere di dimissioni da firmare in
bianco prima dell’assunzione, nonostante il continuo scoramento da parte di una
società televisiva, che la asfissia con immagini di veline meno colte di lei,
ma molto più ricche e più elogiate.
Wonderwomen,
insomma. Donne complesse queste donne che – nonostante tutto – non perdono la
loro femminilità. Portiamo i soldi a casa, cresciamo i figli, ma “vogliamo
anche le rose”, come dice il bel documentario di Alina Marazzi. Non siamo
uomini, anche se la società ci chiede di fare come loro se davvero vogliamo
sopravvivere ai tempi impostici: siamo donne. E di fronte a tale poliedricità succede
a volte che l’uomo si confonda, non sappia come confrontarsi con questa “nuova
donna”. Negli ultimi trent’anni – ma soprattutto negli ultimi dieci direi –
l’uomo ha dovuto fare i conti con se stesso per poterli fare anche con una donna
multitasking, tecnologizzata, pronta a re-inventrarsi. È un processo lungo: la
sua incomprensione può diventare disagio e malattia per l’uomo che non sa più gestire
il rapporto con la donna, oggetto che un tempo gli apparteneva. E allora la
vince dove sa di essere più forte per natura, e le fa del male fisicamente.
C’è chi dice che non ha senso parlare di femminicidio, perché l’omicidio di una donna non ha niente di diverso da quello di un uomo, tragico alla stessa maniera. Certamente, ma come non vedere nella morte violenta di una donna per mano di un uomo un crimine connotato sessualmente? Un retaggio della tradizione patriarcale?
Si
potrebbero fare altri esempi, ma questi – i più lampanti purtroppo – mostrano
già da soli come il femminismo sia una questione – politica – che riguarda l’intera
società. Se un tempo le donne avevano giustamente bisogno dei loro spazi
indipendenti, dei loro cerchi dove fare autocoscienza, era perché dovevano
scoprirsi nella loro diversità. Per secoli gli uomini si erano riuniti tra di
loro, toccava anche alle donne farlo. Ora è il momento per tutti di essere
femministi, perché in ballo c’è la costruzione di una società dove vivranno le
figlie e le nipoti di tutti, una società rispettosa delle differenze. Per
farlo c’è ancora bisogno di tanta autocoscienza, di uno sforzo quotidiano che
metta continuamente in discussione ciò che è dato per scontato nelle nostre relazioni
di coppia e in famiglia (illuminante a tal proposito è la lettura di uno dei
testi fondamentali del femminismo italiano La
donna clitoridea e la donna vaginale, in cui Carla Lonzi dimostra la
stretta relazione tra piacere privato e vita pubblica). E poi c’è bisogno di un
reale supporto legislativo e di una corretta informazione (si potrebbe
incominciare parlando seriamente del congedo di paternità, per esempio).
Ma
questo è un blog letterario, e allora – dato che la letteratura insegna a
pensare in modo complesso attraverso la scrittura e i suoi simboli – è leggendo
la parola letteraria che si cercherà di investigare il problema in questa sede.
La
parola: niente di più femminista
della ricerca della parola che spieghi, che vivifichi il testo, che metta fine
a millenni di silenzi.
Lo
sapeva Hélène Cixous, e la promuoveva quesa écriture
féminine nel suo celebre saggio Le
rire de la Méduse:
È scrivendo da e verso la donna, e raccogliendo la sfida del discorso governato dal fallo che la donna affermerà la donna in un posto diverso da quello riservatole nel e dal simbolo, cioè il silenzio. [3]
Lo
sapeva Penelope, il cui epiteto nell'Odissea non è “bella al pari delle dee”, come
tante altre donne della mitologia, ma “saggia”. Una saggezza dimenticata da una
tradizione troppo concentrata nell’iperesaltazione dell’astuto Ulisse, ma che
non sfugge alla Cavarero: in Nonostante
Platone, infatti, Penelope è al primo posto della lista di figure
dell’antichità cariche di simbolicità femminista, e per questo da riscoprire e
riabilitare.
Lo
sapeva, infine, Sheherazade, che riuscì a evitare la morte raccontando una
storia diversa al sultano ogni notte per mille e una notte. Una parola
salvifica, quindi, la parola femminile, che capovolge la realtà con l’astuzia,
che vince sull'arroganza e sullo strapotere maschile.
È
per tale motivo che con questo editoriale si dà il via allo speciale #vivasheherazade: un “evviva” alla parola
femminile che rompe il silenzio, che è viva e che tiene in vita.
In
realtà, CriticaLetteraria non è nuova al discorso femminista. Ne abbiamo
parlato ogni qual volta abbiamo scritto di resistenza femminile, come nel caso
di Azar Nafisi che legge Lolita a Teheran; in passato abbiamo già scritto di
femminicidio, con le recensioni al Male
che si deve raccontare di Simonetta Agnello Hornby e all’antologia Nessuna più; abbiamo trattato il tema
della maternità secondo Laudomia Bonanni e il suo Bambino di pietra; siamo andati fino in Missisipi per conoscere le coraggiose
donne di The Help.
La
prossima tappa dello speciale sarà martedì 19, con la recensione a Dividua. Femminismo e cittadinanza,
l’ultimo scritto della storica catanese Emma Baeri. Seguirà martedì 26 l'invito alla lettura a un classico del genere: Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf (scrittrice a cui abbiamo
già dedicato vari post).
Il
discorso sul femminismo non vuole certo esaurirsi qui: una completa indagine
sulla letteratura di genere esula per ovvi motivi lo spazio e le intenzioni di
questa introduzione. Si dovrebbe almeno accennare ad altre differenze e a quello
che la critica considera il passo successivo ai gender studies, e cioè i queer studies (mi limito a rimandare
qui a un #Criticalibera su letteratura e omosessualità ). Ma lo scopo di
questa sommaria bibliografia sarà comunque raggiunto se al lettore incuriosito
venisse in mente di leggere uno o più dei titoli qui suggeriti, magari indagare
e trovarne degli altri, magari anche criticarli. Chi si accosta al discorso
femminista non tarda a capire che una delle sue bellezze più grandi è l’innata
e totale propensione dialogica. Forse eredità delle pratiche di autocoscienza,
in cui le compagne dialogavano e costruivano conoscenza a partire dalla propria
esperienza, l’apertura alla critica, al dubbio, all’altro e all’altrove è una
costante della scrittura femminista. Sedetevi in cerchio con noi, vi invitiamo
ad ascoltare con critica attenzione le polifonie delle donne che vi
presenteremo. Buona lettura y ¡que viva Sheherazade!
Serena
Alessi
Bibliografia
di riferimento:
- J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità, Bari, Laterza, 2013.
- A. Cavarero et al., Diotima: il pensiero della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, 1987.
- A.Cavarero, Nonostante Platone: figure femminili nella filosofia antica, Roma, Editori Riuniti, 1990. (seconda ed., Verona, Ombre Corte, 2009).
- H. Cixous, Il riso della Medusa, trad. Catia Rizzati, in Critiche femministe e teorie letterarie, a cura di R. Baccolini, M. G. Fabi, V. Fortunati, R. Ponticelli, Bologna, CLUEB, 1997, pp. 221-245.
- L. Irigaray, Etica della differenza sessuale , Milano: Feltrinelli, 1985.
- L. Irigaray, Parlare non è mai neutro, Roma: Editori Riuniti, 1991.
- J. Kristeva, Le temps des femmes, «Cahiers de recherche de textes et documents», 1979, 5, 5-14.
- C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. E altri scritti, Milano, et al., 2010.
[1]J. Kristeva, Le temps des femmes, «Cahiers de
recherche de textes et documents», 1979, 5, 5-14. Traduzione
a cura di S. A.
[2]A.Cavarero, Nonostante Platone:
figure femminili nella filosofia antica, Roma, Editori Riuniti, 1990, pp.
4-5.
[3] H. Cixous, Il riso della Medusa, trad. Catia Rizzati, in Critiche
femministe e teorie letterarie, a cura di R. Baccolini, M. G. Fabi, V. Fortunati, R. Ponticelli,
Bologna, CLUEB, 1997, pp. 221-245.
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