Foto di Leo Rubinfien |
La Sicilia è luogo di luce pungente che batte troppo violenta sulla terra secca d’estate e la rende atroce; la potente luce del Sud è un “acceso lampo turchino” che entra invadente nello sguardo e per effetto crea ombre continue e buio, e le
palpebre lasciano il posto all’oscurità pur di sopravvivere all’impotenza di vedere nel fulgore.
La luce non è solamente stereotipo geografico di
terra di Sud, ma soprattutto concetto filosofico e simbolico: felicità
impossibile da perseguire, in cui, la debolezza dello sguardo diviene debolezza
dell’animo nel raggiungerla.
Questa luce, che è in realtà due, il chiaro della coscienza e del pensiero, lo scuro dell’inconsapevolezza e dell’opacità dei sensi e dell’intelligenza, dimostra così nella sua identità ossimorica di essere il sole nero nella melanconia[…], che avrà qui il nome di apprensione o di lussuria, di tetraggine o di esaurimento nervoso[…].[1]
La melanconia è uno stato d’animo dolente ma calmo, non privo di una
certa dolcezza; per dirla con Schillirò
è “la malattia collettiva di un popolo che attende la luce ogni giorno
nei luoghi in cui l’ha ricevuta il giorno prima”.
Ogni scrittore del Sud ha la percezione di una tetra pacatezza
all’avvertenza del caldo silenzio meridiano d’agosto; sono le
immagini, le percezioni e gli odori a provocare una condizione che a volte
sfocia nell’inerzia, che non è immobilità di pensiero, ma flusso continuo di
immagini associate a sensazioni gravi e felici.
La malinconia è una condizione.
Essa è legata ai luoghi, e più essi sono spogli e arcaici, più si caricano di
significati quasi mitici, mentre l’aria si riempie degli odori della vendemmia:
Ho conosciuto in seguito la notte di luglio a Pachino, coi carri dei vendemmiatori , staccati dagli asini e dai muli, le aste in aria, zeppi di cartelli e di quartaroli, in fila nelle strade polverose lungo gli stretti marciapiedi, presso i balconcini poco elevati. L’odore del mosto rende l’aria vinosa e densa: i polmoni la bevono e il palato l’assapora. I sogni sono gravi e felici. Le mosche, ubriache, sbattono pazzamente sui vetri, nient’affatto ripugnanti e sporche, ma piene anch’esse di mosto e simili a chicchi d’uva rimbalzanti nell’aria[2].
L’olfatto è lo strumento poetico della memoria, l’infanzia è legame
con la terra d’origine; il ritorno ad essa assale il viandante che “riprende
la vita nel punto preciso in cui l’aveva lasciata, e tutto il tempo”
intercorso tra i dieci e i quarant’anni in luoghi diversi, “salta via come
un tronco marcio”.
Siamo in quella fase della vita di Vitaliano Brancati(1907-1954) che Schillirò
definisce della “maturità della memoria”.
Il passato è il già vissuto, è un tempo definito che l’uomo conosce
già, e per questo, lo rimpiange; sa che la morte è lontana dal conosciuto e
tanto più si è lontani dal passato tanto si è vicini alla morte. Il nonno è la
figura di andata e ritorno della memoria, da Pachino a Roma, dalla Sicilia
all’Italia, dall’infanzia alla maturità.
I personaggi di Brancati partono
e ritornano in Sicilia, il topos ricorrente è quello del
movimento della metropoli, contrapposto al sonno della provincia;il siciliano
rosso in volto dal riposo immancabile, si accosta alle notti romane in cui
Paolo Castorini -protagonista del romanzo Paolo il caldo- allunga
l’udito fuori dalla finestra per ascoltare i rumori dei tram e delle
automobili, le donne dai volti graziosi camminano svelte passando dalla piccole
piazze, mentre quelle dagli abiti freschi bevono un drink nei salotti
letterari.
L’uomo si scinde in due maschere che può rivelare solo nei posti
abitati, chiunque abbia vissuto in luoghi che si contrappongono, spesso ha la
sensazione di condurre due vite parallele, e la perdita dell’una o dell’altra,
rende sbieca la stessa esistenza.
In Brancati, i luoghi acquistano tutti un significato esistenziale, in
cui il dualismo si esplica nel centro-corpo/periferia- pensiero.
I personaggi brancatiani sono spesso uomini del Sud, esuli e
condannati al ritorno in una terra immobile ma dal legame
inscindibile, dalle pulsioni irrazionali, che dal Sud provengono e
nel mondo si realizzano.
La provincia è uno spazio circoscritto, luogo della
quiete dell’io, limite corporale e sociale ma non del pensiero, è la parete un
po’ antica ma ben conservata del torpore domestico, delle donne che a
trent’anni sono già vecchie e fanno da coda con in mano pirofile fumanti.
La metropoli è il luogo del disordine
della carne, della quasinegazione del
pensiero, pur nell’attivismo sociale e delle menti. Luogo del pensiero contrapposto a luogo della
carne.
Evidentemente, il discordo diviene illogico: se le pulsioni provengono
dallo spazio ristretto (che siano esse apprensione, lussuria o qualsivoglia)
come si può parlare di interno della quiete e esterno del disordine? Perciò, se
le pulsioni stesse provengono dall’interno e si realizzano all’esterno, non
esiste una contrapposizione netta, anzi, è chiaro che ci sia un cappio
strettissimo necessario alla conoscenza stessa.
Si può conoscere il proprio io solo facendosi altro, sdoppiandosi: da una parte l’io che vive, dall’altra l’io che conosce; l’io come oggetto, e l’io come giudice(o, se si vuole, l’immagine e lo sguardo). Il secondo risiederà altrove, perché lo straniamento spaziale è condizione preziosa per l’autoconoscenza.[3]
Le opere di Brancati sono dotate di un’incredibile efficacia
collettiva, ed è così che la noia di Catania degli “Anni perduti”, maschera la
staticità della sottomissione al Fascismo negli anni trenta, così come il Gallismo cela l’immagine nazionale,
nonché europea, della tirannide. Il Gallismo
“consiste principalmente nel dare ad intendere di essere in possesso di una
straordinaria forza virile. Molti italiani sono bruciati da questa smania, e in
modo particolare gli uomini politici”.[4]
Uomini forti, volti all’azione, alla potenza fisica e alla distruzione
del pensiero. “Agire, agire, agire!”, vanagloria e bassezza d’istinti; in qualche modo il fascismo è considerato l’equivalente politico del gallismo[5].
Nella dicotomia brancatiana
Metropoli-Provincia, la provincia è il luogo della disintossicazione dalla
modernità, d’illusioni e miti, d’inerzia ed egoismo sociale consapevole, in cui
gli uomini del Sud ritornano, sempre. Il ritorno è quello della memoria, è il
desiderio dell’odore di pipa del nonno e dei fiori rossi ai balconcini, il ritorno è la necessità di rigenerarsi
d’infanzia.
Come ogni anno, anche nell’autunno del ’51 B. andò in Sicilia. Questa volta però il motivo della sua visita non fu la scuola, da cui si era dimesso. Forse anche le altre volte la scuola infondo non era stata che un alibi per giustificare il suo ricorrente, viscerale bisogno del Sud. Era un bisogno irrazionale e profondo che io capivo benissimo. Eppure B. sembrava non volerlo ammettere nemmeno con se stesso(forse ripugnava alla parte razionale, illuministica della sua intelligenza). Per tutta la vita combatté le oscure pulsioni che il Sud faceva fermentare nel suo sangue; le combatté trasfigurandole nella sua opera o cercando di giustificarle, nella vita, attraverso complicate manovre della ragione. Ma la verità era quella che mi aveva scritto nel ’42,nella sua primissima lettera:[…]il Sud a cui appartengo interamente e di cui sono (me ne accorgo ora) il più pazzo e avvelenato figliolo.[6]
[1] Massimo
Schillirò, Narciso in Sicilia. Lo spazio autobiografico nell'opera di Vitaliano
Brancati. Napoli, Liguori, 2001.
[2] V.
Brancati, Diario romano, a cura di S. De Feo e G. A. Cibotto, Bompiani,
Milano,1961
[3] Massimo
Schillirò, Narciso in Sicilia Lo spazio autobiografico nell'opera di
Vitaliano Brancati. Napoli,Liguori, 2001.
[4] V.
Brancati, Diario romano, a cura di S. De Feo e G. A. Cibotto, Bompiani,
Milano,1961.
[5]Enzo
Lauretta, Invito alla lettura di Vitaliano Brancati, Mursia,1980.
[6] V.
Brancati- A. Proclemer, Lettere da un matrimonio, p. 206, da Enzo Lauretta,
Invito alla lettura di Vitaliano Brancati, …
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