Come essere una brava moglie
di Emma Chapman
Feltrinelli, 2013
Traduzione di S. Valenti
pp. 206
€ 15,00 (cartaceo)
Stridore. Stridore tra le norme che una brava moglie deve seguire per accontentare il consorte secondo un libro di bon-ton familiare più volte citato, e la frustrazione rabbiosa nel profondo di Marta. Stridore tra l'apparente inappuntabilità della sua vita di moglie e madre, e l'astio per il marito Hector e l'amore morboso, quasi patologico, per il figlio Kylan, che con la sua indipendenza ha scatenato una potente sindrome del nido vuoto. Stridore tra quel che si fa e quel che si vorrebbe fare. Come dare ascolto a questi continui conflitti interiori? Marta sa che dovrebbe prendere le sue pillole per calmare ansie e mettere a tacere incubi, voci e visioni: e se quella ragazza non fosse in realtà un'allucinazione ma una voce dal passato? Marta non ricorda, ma sa che l'unica via per ritrovare la verità è non prendere quelle pillole, a qualsiasi costo.
Il dramma familiare si trasforma presto in un thriller, che qualcuno ha accostato a Hitchcock, probabilmente per i toni foschi e l'azione svelta, catturante. Ancor più interessante, se si pensa che Come essere una brava moglie è il primo romanzo di Emma Chapman. E non si direbbe: l'autrice riesce ad accentuare via via la distanza tra la visione di Marta e il reale secondo gli altri personaggi, alimentando il mistero e il dubbio: saranno distorsioni della mente di una disturbata o tasselli di uno studiato massacro psicologico?
Il lettore segue la narrazione di Marta, la sua lotta contro le apparizioni e il desiderio, sempre più inquietante, di abbandonarsi alla loro presenza, mentre un'altra mano si appoggia sulla sua, confondendosi e perdendo i contorni. In questo delirante viaggio verso l'ignoto, Marta sa che potrebbe perdere sé stessa: e allora si attacca alla simulazione della moglie e madre perfetta, perfetta padrona di casa, e alla dissimulazione delle sue ansie, della repulsione che le ispira il marito.
In fondo, la pantomima della pillola che Marta nasconde sotto la lingua e getta appena Hector esce dalla stanza rappresenta perfettamente la diffidenza di una donna che non si arrende alla sua malattia. O che sa di dover cercare altro...
E lo stridore prosegue, in un'altalena di strappi tra osservazione del reale e sua mistificazione salvifica (o no?). Purtroppo lo stridore si estende allo stile, che soprattutto nelle prime decine di pagine porta a mettere in dubbio l'efficacia della traduzione: in particolare, il tasso di aggettivazione preposta al sostantivo è ossessiva e troppo enfatica, rischiando di distrarre dall'importanza dei verbi, vero punto focale di una narrazione serrata, da sceneggiatura di thriller (con i pro e i contro di una simile impostazione, che punta sulla visualità spinta).
Ciò non toglie che, fortunatamente, dopo questo primo impasse che crediamo più imputabile al traduttore che all'autrice, la narrazione cresce e si resta completamente avviluppati nel bozzolo gelido di Marta, e si inizia a temere con lei che, parafrasando Montale, la realtà non sia quella che si vede.
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