Il padre infedele
Antonio
Scurati
Bompiani,
2013
188 pp.
17 €
Confesso di avere qualche
problema con Antonio Scurati. Chiaramente non nei confronti della sua persona ma
della sua scrittura. Però continuo a non rassegnarmi. Mi convinco che sia un
problema superabile e continuo a leggere i suoi romanzi. L’ultimo ho deciso
anche di recensirlo. Si intitola Il padre
infedele ed è stato edito lo scorso ottobre da Bompiani, casa editrice con
cui Scurati ha pubblicato quasi tutti i suoi lavori.
Il prologo del romanzo inquadra
una coppia nel mezzo di una crisi coniugale e la ritrae con sufficiente
enigmaticità da catturare subito l’attenzione dei lettori. Da quella
circostanza il protagonista prende le mosse per raccontare la sua storia. La
trama riguarderebbe le memorie di un uomo, Glauco Revelli, quarantenne,
laureato in filosofia e chef di professione, che dopo aver ripercorso
brevemente la sua infanzia, in questa sorta di diario, passa in rassegna gli
anni più importanti della sua vita; quelli in cui ha conosciuto Giulia,
divenuta poi sua moglie, e in cui è diventato padre di Anita. Rivivendo quegli
anni, Glauco si imbatte in una serie di crisi a catena, da quella esistenziale,
legata all’ingresso nell’età adulta, a quella coniugale, dalla crisi epocale
degli anni duemila a quella economica dell’ultimo periodo. A emergere, alla
fine, sarà il ritratto di un’intera generazione, quella dei baby boomer degli
anni sessanta e settanta, trovatisi a pagare, in un futuro di precarietà, il prezzo
per aver goduto del passato più luminoso e spensierato possibile. Glauco, impegnato
dunque nel triplice ruolo di padre, marito e figlio, tira le somme e fa i conti
per tutti, con sommessa amarezza e buona lucidità. Analizza la nostra epoca, le
follie della globalizzazione, le promesse mancate della società dei consumi, la
tragedia di una nazione che non fa più figli.
Sono parecchi elementi,
interessanti e difficili da maneggiare. E a questo punto, infatti, subentrano i
dubbi. A questo punto emergono, secondo il modesto parere di chi scrive, una
serie di mancanze e debolezze. Cercheremo di riassumerle sommariamente
utilizzando alcune parole come punti di riferimento, come geografia minima per
orientarci.
La prima di queste parole è scrittore. Antonio Scurati scrive molto
bene, ma non riesce a convincere di essere un grande scrittore. Mancano spesso
la leggerezza (da intendersi non in senso calviniano, ma più tradizionale), la
rapidità, l’agilità, la raffinatezza, l’eclettismo, la spericolatezza dei
grandi scrittori. Cercare di fotografare uno spaccato di storia, in tutta la
sua perversa e altalenante complessità è un tentativo nobile e per questo
complesso. La forma del romanzo consentirebbe di farlo con spensieratezza,
consentirebbe di non prendersi troppo sul serio, consentirebbe di aggredire
l’argomento di traverso e da un’angolatura privilegiata. Invece Scurati
trasgredisce deliberatamente e senza giustificazione la regola aurea che ogni
insegnante di scrittura creativa (e lo stesso Scurati insegna scrittura
creativa alla IULM) dovrebbe sempre tenere come mantra, ovvero “show don’t
tell”. E quindi arriva sempre con troppa foga di dire, di comunicare, di
esprimere, continua a prendere platealmente la parola, nascondendosi dietro il
suo personaggio.
Per questo la nostra seconda
parola è ambiguità, quella che lo
scrittore napoletano mostra di ricercare nelle prime tre pagine del prologo e
che, subito dopo, abbandona per poi ritrovarla solo nell’epilogo. L’ambiguità
che è fondamentale nei grandi romanzi. Ambiguità che significa doppiezza dei
significati e dei messaggi, che significa interpretazione non univoca,
sfuggevolezza delle opinioni e del sistema di valori. L’ambiguità è il sorriso
malizioso dello scrittore che gioca con i suoi lettori, che li trasporta da una
parte per poi scaraventarli inaspettatamente da un altra. Scurati sembra invece
impacciato e statico. Ha paura dei fraintendimenti, sente il bisogno di
accendere i riflettori sugli elementi importanti, di dare continuamente di
gomito al lettore, per imbonirlo, educarlo, imbottirlo di analisi e messaggi,
di giudizi etici, considerazioni personali. Non c’è dunque nessuna ambiguità,
che significa anche e innanzitutto imprevedibilità della narrazione.
E questa è la terza parola che
abbiamo scelto, narrazione. Perché
essa dovrebbe essere il nodo centrale di qualunque opera di fiction, sia pure essa costruita attorno
all’espediente del racconto biografico in prima persona, e invece ne Il padre infedele sembra sempre solo un banale
espediente per occuparsi d’altro. Qualunque spostamento della trama dal punto A
al punto B (andare a raccattare una palla, come partecipare a una serata della
movida milanese) è sempre il pretesto per lanciarsi in una serie di
considerazioni e riflessioni della voce narrante, un’analisi sulla sua vita e
sulla vita di tutti noi, calata a forza dall’alto, a volte anche da molto
lontano. E così, anche l’infedeltà del padre, ovvero i tradimenti alla moglie,
vissuti più con rimorso nei confronti della figlia Anita che di Giulia,
raccontati in terza persona (è questo uno dei pochi tentativi di spezzare
l’andamento monocorde del romanzo), finisce per essere un elemento marginale,
poco importante, della trama – il libro potrebbe infatti tranquillamente andare
avanti senza di essi. Persino la scelta di uno chef come protagonista sembra
non avere altro scopo se non quello di illustrare, in maniera didascalica, come
si sia evoluta la gastronomia nella nostra società. Nel complesso, Il padre infedele è un agevolissimo
saggio, frastagliato di metafore belliche (uno dei campi di ricerca di Scurati)
e di analisi sui linguaggi e sistemi di comunicazione moderna, e un
pesantissimo romanzo; una corsa logorante e sfiancante, che provoca il fiatone,
ma alla fine della quale lettore e autore si scoprono ancora immobili sui
blocchi di partenza.
E allora l’ultima parola che
abbiamo scelto è inessenziale. Una
parola forse forte ma affatto peregrina. Non inutile, perché nessun romanzo,
soprattutto se scritto da un brillante intellettuale – e ottimo saggista - come
Scurati, è inutile. E però inessenziale. Soprattutto in un mercato editoriale
schiacciato, come il nostro, dall’eccesso di titoli scadenti, asfittico e
asfissiato da un’iperproduzione sconsiderata e irrazionale. Capiamo certo le
esigenze della casa editrice, proprio in virtù delle difficoltà sopracitate, di
puntare sull’autorevolezza del nome dell’autore e su una fascia precisa di
pubblico per soddisfare le necessità di vendita, eppure il risultato, dal punto
di vista letterario, non può che risultarci, ancora una volta, tragicamente,
fuori bersaglio. Perché, e questo sempre secondo il modestissimo parere di chi
scrive, di un romanzo in parte impenetrabile per chiunque non sia un padre, un
marito, un figlio e un quarantenne – e che sia necessariamente tutte queste
cose allo stesso momento – forse si poteva anche fare a meno.
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