Lettera di Lord Chandos
di Hugo von Hofmannsthal
a cura e con traduzione di G. Lacchin
Mimesis, 2007
pp. 209
€ 16
A volte si
possono leggere saggi filosofici che trattano il decentramento dell’io, i
limiti del linguaggio, lo sbarramento insormontabile della referenzialità del
reale rispetto allo sguardo umano. In altre occasioni ci si imbatte in un
racconto di quattro pagine e mezza in cui un disorientato aristocratico del XVII
secolo confessa una recente esperienza afasica a causa della quale decide di
non proseguire la sua carriera letteraria. Ma è come leggere lo stesso libro e giungere
all’identico riepilogo: il linguaggio umano figura come (pre)testo ed è del tutto
inane alla rappresentabilità del mondo e della vita che lo attraversa. La
realtà è cioè irriducibile al pensiero che la osserva, il segno si offre nella
differenza di ciò di cui prende il posto, esiste uno scollamento fondamentale
tra le parole e le cose, avendo l’io che le nomina perso il suo statuto di
centro unificatore. Singolare e al tempo stesso ironico che la toale sfiducia
nelle possibilità espressive della parola sia formulata attraverso lo stesso
segno alfabetico rispetto al quale se ne denuncia l’inadeguatezza.
Hofmannsthal,
scrittore austriaco, (riduttivamente) decadente-simbolista e dedito
maggiormente al teatro, con questo breve scritto del 1902 riesce nell’impresa
di anticipare e condensare Mach, Lacan, Foucault e Heidegger nell’esiguo spazio
di pochi paragrafi, costruendo una sintesi che (forse) solo la letteratura è in
grado di proporre. I protagonisti sono Francis Bacon e Philipp Lord Chandos della
famiglia del conte di Bath di origine anglo-normanna, il quale tenta di
giustificare all’amico e suo grande estimatore un malessere apparentemente
personale che via via si trasforma in un disincantato e malinconico congedo da un
universo di senso ormai sbriciolato. Lo spirito della malattia moderna, elaborato
alla massima potenza insieme a molti temi-cardine del Novecento (la perdita
dell’esperienza, le stesse poetiche del frammento e del dettaglio staccato dal
tutto, le epifanie montaliane), trovano qui il modo di emergere in tutta la loro
evidenza. La lingua cui Lord Chandos vorrebbe infine approdare, imponderabile,
innominabile e indescrivibile, è quella delle cose mute che parlano, con le quali sogna una fusione panteistica e,
appunto, intraducibile. E sullo sfondo sembra quasi echeggiare Hobbes: “vero e
falso sono attributi delle parole, non delle cose”.
Nell’eleganza di
una scrittura aristocratica e introflessa, l’autore di questa epistola
immaginaria confessa la sua impotenza creativa e le motivazioni della rinuncia
non solo alle aspirazioni letterarie, ma a qualcosa che sta al cuore della
presenza umana sulla terra: la ragione. Dando nomi uccidiamo le cose, diceva
Rilke, e nel solco di questa consapevolezza sembra muoversi il latore della
missiva, colllocato nella difficile condizione di spiegare razionalmente ciò
che lo ha attraversato di recente. Lo stesso Hofmannsthal sperimentò una crisi
creativa dopo i precoci e felici esordi lirico-letterari, volgendosi infine al
teatro come mezzo espressivo più affine alla sua sensibilità, e non risulta
quindi difficile immaginare lo spunto autobiografico di partenza. Tuttavia,
nella Lettera di Lord Chandos ci
troviamo di fronte ad uno dei primissimi documenti che riguardano molto da
vicino alcuni aspetti del dibattito culturale moderno: la decifrabilità della
materia vivente, la possibilità dei linguaggi non verbali (tra cui le arti
figurative) di fare breccia nella - costitutiva?
- inafferrabilità delle cose, le posture da assumere nei confronti della
parcellizzazione dell’esperienza umana e di ciò che nominiamo reale, e non ultimo il ruolo stesso della letteratura come
forma simbolica all’interno delle forme di comunicazione e delle disseminazioni
di senso.
Ci sono momenti, e sono quasi paurosi, in cui tutto attorno a noi vuole assumere l’intera forza della sua vita, in cui tutte le cose mute le sentiamo vivere accanto a noi, e la nostra vita è in loro più che in noi stessi,chiosa Hofmannsthal in occasione di un discorso tenuto in casa del conte Karl Lanckoronski, celebre collezionista d’arte nella Vienna dell’epoca. Quei momenti sono proprio ciò a cui allude Lord Chandos quando descrive all’amico la natura della sua esperienza quasi mistica che lo spinge a dichiarare:
ho completamente perduto la facoltà di pensare e di parlare di qualsiasi cosa in maniera consequenziale.Vi è come l’intuizione di una lingua delle cui parole non una sola mi è nota, una lingua in cui le cose mute mi parlano; il subodorare una specie di realtà sovrasensibile posta al di fuori del linguaggio e dei suoi codici (così come del razionalismo che inchioda l’esistente sui binari di un protocollo necessario quanto esangue), sulla quale si misura anche Pascal con un suo celebre pensiero: l’ultimo passo della ragione è ammettere l’esistenza di un’infinità di cose che la superano. Di qui il dipanarsi dei nostri puerili tentativi di incasellare l’esistente, a cui dobbiamo pur fare riferimento e di cui dobbiamo obbligatoriamente (ri)ferire per non essere inghiottiti anzitempo dall’abisso del nulla.
L’edizione da
tenere presente è quella del 2007, con numerosi contributi di altri studiosi, a
cura di Giancarlo Lacchin per i tipi della Mimesis; la traduzione è di Andrea
Sandri e dello stesso Lacchin, in precedenza pubblicata anche in Panoptikon. Rivista di cultura mitteleuropea,
II (2002), pp. 26-38.
Social Network