di Patrizia Fortunati
Ali&no, 2013
pp. 166
€ 15
Alcune parti del mondo sono “giuste”,
altre sono “sbagliate”. La Bielorussia, dal 1986, è sbagliata.
L'Italia è una parte giusta.
Il 1986 è l'anno del disastro nucleare
di Chernobyl, uno dei più gravi che il mondo conosca. Abbiamo visto
- in diretta o anni dopo - le immagini alla televisione, abbiamo
sofferto con chi ha perso tutto, ci siamo impressionati di fronte
alle fotografie di mutazioni, abbiamo sentito parlare di cancro alla
tiroide e leucemia. Anche se non siamo sempre stati in grado di
capire scientificamente le connessioni fra radiazioni e morte.
La Bielorussia, anche se Chernobyl si
trova in Ucraina, è stata da subito colpita.
E qui, nel frattempo? Mia madre (io non
ero ancora nata) mi dice che in quei mesi non si poteva usare l'acqua
del rubinetto perché la nube tossica nell'aria vola e arriva anche
in Italia.
Ci siamo chiesti come poter aiutare
quelle famiglie disperate. E qualcuno l'ha fatto. Con la beneficenza
e con le “vacanze terapeutiche”. Associazioni attive in molte
parti d'Italia si sono mosse per ospitare, in famiglie volenterose,
un “bambino di Chernobyl” per il periodo estivo. I miei zii
l'hanno fatto e tutti noi ci ricordiamo gli occhi blu di Katia, che
ora è diventata mamma.
Anche Lyudmila, la protagonista del
romanzo, è stata una “bambina di Chernobyl” che ha avuto la
fortuna di vivere le sue estati in Italia in una famiglia ordinaria
una vita che per lei era straordinaria.
A 90 anni, nel 2077, si siede su una
sedia gialla e inizia a ripercorrere la sua vita, fatta di fatiche e
sofferenza, col ricordo sempre vivo dei suoi italiani. Noi
lettori ci lasciamo condurre in questo viaggio intimo, fatto di
memorie, teniamo per mano Lyudmila e i suoi ricordi.
Il
primo anno che arriva in Italia ha 8 anni e per lei è tutto una
novità: l'aereo, i panini al prosciutto, un bagno caldo, la
lavatrice, le scarpe nuove, la luce in tutte le camere, la Barbie, il
mare. L'affetto di due genitori che non sono i tuoi, ma piangono
quando torni nella tua terra.
Per
nove estati Lyudmila viene in Italia, dalla stessa famiglia, da
Angela e Lucio, che per tutta la vita continuarono a mandare soldi,
medicine e vestiti a Lyudmila che cresceva.
Da
vecchia Lyudmila vuole capire, la sua è una necessità assoluta per
dare un senso alla sua esistenza. Una vita piena: di sacrifici,
sofferenze, dolori, sbagli e bugie. Ma che è stata messa in salvo
forse proprio grazie alle sue dieci estate italiane. Dove ha
conosciuto il benessere ma anche l'amore, e la consapevolezza che una
vita migliore, o semplicemente diversa, esiste. Questa vita che però
non ha saputo realizzare per sé.
Lyudmila
è cresciuta senza amore, con un padre violento e alcolizzato e una
madre scostante e fredda. Il rapporto con i suoi numerosi fratelli si
è incrinato a causa della gelosia che questi ultimi provavano nei
suoi confronti e in quelli delle sue vacanze. Sogna una vita migliore
che non riesce a costruire. Infatti Lyudmila sposa
(mai per davvero, ma questo è quel che riferisce ai suoi
italiani) Ivan. Che ama
profondamente, ma Ivan è esattamente ciò da cui voleva fuggire: è
la copia di suo padre.
" - ci sono cresciuta in una famiglia difficile. Io nonla voglio una famiglia come quella di mia madre, stai tranquilla.- Quante volte l'ho detto. L'ho pensato. L'ho giurato. Bastò incontrare Ivan per cambiare idea e infrangere quel giuramento fatto alla bambina che ero stata."
Nascono
due figlie, ma Ivan è un bevitore accanito che la picchia e la
maltratta. Tanti tentativi per cacciarlo di casa, tanti ripensamenti
e troppe giustificazioni. Se si salva è per le sue bambine e perché
Ivan muore. Dopo qualche anno dalla sua morte Lyudmila si sposa,
questa volta per davvero, con Vladimir, un ucraino emigrato,
misterioso, ma un duro lavoratore e un uomo serio.
"Certo beveva, bevevano tutti nelle campagne. In molti giurano che io sia stata l'unica astemia che abbiano mai conosciuto. Comunque io non lo vidi mai ubriaco. E anche quando beveva un po' troppo, Vladimir lavorava sette giorni su sette, mai meno di dieci ore al giorno".
Però
Vladimir ha un segreto, una tragedia mai superata, che lo porta a un
gesto estremo. Lyudmila riuscirà anche a darsi una spiegazione della
morte di suo marito e anzi, paradossalmente, a sentirsi più unita a
lui.
E
poi c'è Mikhail, un fratellino nato malato, che la mamma abbandona
dopo il parto e che cresce in una casa di cure e assistenza. Da
adulta Lyudmila lo ritrova ed è grazie a lui che riscopre sua madre
in una prospettiva nuova, una madre che ha abbandonato suo figlio
perché conscia di non potergli dare una vita adeguata, ma che per
dieci anni lo è andato a trovare tutti i mesi, di nascosto.
"Quel giorno non diedi da mangiare alle galline. Non accesi il camino. Quel giorno mi riconciliai con mia madre. E null'altro ebbe senso".
Questo
perdono che Lyudmila dà è un'ulteriore conferma del fatto che
capire aiuta a vivere.
"Tutta la rabbia che avevo provato verso di lei, per tutta la mia vita, si sciolse sotto quel sole invernale che mi aveva scaldato il cuore. E mi sentii serena".
A
90 anni ha una vita intensa alle spalle, che non è stata quella
desiderata, ma che ha potuto vedere riscattata nella vita delle sue
due figlie. Due donne intelligenti, che han fatto l'università, che
lavorano e che si sono realizzate.
Gli
ultimi anni che le restano sono quelli di una donna che ha vissuto
quasi un secolo e che ha capito almeno una cosa: quanto sia
fondamentale capire.
Solo così, attraverso questo difficile percorso di autoanalisi,
riesce a ritrovare la serenità e a dare un senso alla sua vita ormai
vicina al capolinea.
Marmellata di
prugne è
questo. È un romanzo che fa riflettere, scritto da Patrizia
Fortunati in modo toccante e intenso. L'autrice, che esordisce con
questo libro, sa passare in maniera fluida e spontanea da un
avvenimento all'altro tramite l'interiorità del suo personaggio, dal
passato al presente (che è però un futuro), attraverso
ripensamenti, anticipazioni e ripetizioni, in un intreccio armonioso.
È una testimonianza di una vita lunga e tortuosa, dove realtà e
immaginazione si incrociano e dove, alla fine, emerge l' ottmismo e
la dolcezza. La dolcezza di un cucchiano di quella marmellata
assaggiata in Italia che
"spalmata su fette di pane nero tostato, è stata la merenda delle mie figlie e, nei momenti peggiori, il nostro unico pasto. Per me lo è ancora oggi, anche se non più per necessità. Lo è per scelta. Perchè sa di estati lontane".
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