Ascoltate
come respira
il pianeta Sarajevo
Ascoltate
come piange la Ragazza:
“Morte, non mi prendere!”
Quante volte
piangendo
abbiamo detto
le nostre ardenti preghiere per la pace?
Se ne infischia la Morte della lacrima della ragazza,
se ne infischia la Morte delle preghiere dell’uomo.
come respira
il pianeta Sarajevo
Ascoltate
come piange la Ragazza:
“Morte, non mi prendere!”
Quante volte
piangendo
abbiamo detto
le nostre ardenti preghiere per la pace?
Se ne infischia la Morte della lacrima della ragazza,
se ne infischia la Morte delle preghiere dell’uomo.
Centinaia di bambini nascono in una città sotto
assedio; la luce è il loro destino: nati, sono la luce nel buio di una guerra
lunga quattro anni; cresciuti, devono liberare la luce che portano dentro e
ricucire l’anima strappata della loro città.
Nasce Valentina, una ragazza reggiana, che della
sua impertinenza fa la chiave per scoprire il mondo e ridurne le distanze:
ascolta Valentina, ascolta e racconta.
Valentina e la sua impertinenza partono per
Sarajevo, alla ricerca dei ragazzi bosniaci, a lei coetanei, e del loro destino
di luce e costruzione. Valentina vuole scoprire cosa significhi aprire gli
occhi per la prima volta tra la guerra e per farlo si avvale della
collaborazione del regista Alessandro Scillitani, già autore fra gli altri de Il risveglio del fiume segreto, presentato alla 69a
Mostra del Cinema di Venezia.
Valentina e il suo zaino blu, Alessandro e la sua Canon 60D partono per la
Bosnia: una settimana per cercare e farsi trovare dalle voci, le memorie, i
colori di una terra e della sua gioventù. Le parole di Valentina guardano
quello che gli occhi di Alessandro sanno raccontare e cioè che gli
sguardi dei giovani sono lunghi, coprono chilometri, destini, paesi e speranze;
che gli sguardi dei giovani sono forti: liberi sotto assedio, leggono allo
specchio la storia, la ripensano e creano il futuro.
Oggi Criticalibera ospita Valentina Barbieri, l'ideatrice di Quindi passava il tempo, in un'intervista che parla di cevapcici e di occasioni che si creano, di giovani, di speranze, della bellezza e della sua complessità, insomma in un'intervista che parla "parole eterne".
21 anni, piglio impertinente e il vizio del racconto: da qui come
si sceglie Sarajevo?
Sarajevo ha scelto me. Non conoscevo quasi nulla della Bosnia fino
ad un anno fa. Una sera dell'inverno scorso sono andata al cinema a vedere
“Venuto al mondo” con mia madre. Aver gettato lo sguardo su “Sarajevo 1992” in
una scena finale del film è stata la folgorazione che mi ha spinto ad andare.
Sono nata in quell'anno, con questo viaggio in Bosnia volevo incontrare i miei
coetanei nati e transitati sulla guerra.
Come hai organizzato il tuo viaggio? Quanto è durato, come hai
scelto le persone con cui parlare?
Mi sono messa a studiare il più possibile. Ho sfogliato libri,
letto interviste, guardato documentari e film sulla Bosnia. Poi mi sono detta:
“Parto con la consapevolezza di saperne poco. Dunque lascio a casa ogni
pregiudizio”. Siamo stati in Bosnia una settimana a fine aprile 2013. Avevo
qualche contatto dall'Italia come quello con l'attrice Roberta Biagiarelli o
con l'associazione di Jovan Divjak. Pochi incontri fissati, a dire il vero.
Tutto il resto è arrivato, si sono create le occasioni. Non ho scelto le
persone con cui parlare. Mi sono lasciata trasportare molto dagli eventi.
Cercavo giovani da intervistare nelle loro case, nei loro luoghi. Alcuni
giovani, come quelli di Srebrenica, sono arrivati senza che io li avessi
cercati. Erano lì con noi nel luogo e al
momento giusto.
“Quindi passava il tempo”: da dove nasce il titolo del film?
Il titolo è tratto dalla poesia “Quelli che transitano” del poeta
bosniaco Abdulah Sidran contenuta nella raccolta “La bara di Sarajevo”. E' una
poesia scritta prima della guerra e rivolta ai sefarditi(ebrei spagnoli) a
Sarajevo. L'ho scelta perché contiene parole eterne che si intrecciano con il
refrain “Quindi/Poi/E passava il tempo”: quasi a ricordarci che dopotutto, nel
bene e nel male, il tempo passa. Le cose cambiano, i volti invecchiano, i
giovani crescono.
Nel cortometraggio torna spesso la parola "anima". Dopo
esserti immersa nelle parole e negli occhi dei giovani di Sarajevo, come
descrivi tu l’anima di quella città?
Sarajevo non ha una sola anima, ne ha innumerevoli. Sarebbe quasi
riduttivo circoscrivere e tentare di descrivere un qualcosa che è estremamente
complesso. Sarajevo come la Bosnia possiede la bellezza della complessità. E'
in un certo senso enigmatica, sorprendente. Ti sconvolge per gli accostamenti
architettonici, culturali, culinari. E' un fitto crogiolo di esperienze. Tutto
in Bosnia ti spinge all'ascolto.
In cosa si misura la distanza e in cosa la vicinanza tra le
speranze dei giovani in Italia e in Bosnia?
Dimentichiamoci di essere giovani d'Italia. Siamo giovani e basta.
Distanti e vicini l'uno all'altro per diverse ragioni. In Bosnia ci sono tante
tipologie di giovani come in Italia e nel mondo: quelli più fortunati che hanno
la possibilità di studiare, viaggiare e divertirsi e quelli che non sanno come
sfamarsi. Ho incontrato durante il mio viaggio chi è disposto a rimanere nel
proprio Paese e combattere per ritagliarsi una fetta di futuro e chi invece è
pronto a lasciare la Bosnia in cerca di occasioni migliori. Ho visto tanti
sorrisi, tanta determinazione. Del resto, siamo giovani. Tocca a noi credere
ancora in qualcosa.
C’è un’immagine che con delicata prepotenza ti rimane addosso,
dopo la visione del film: quella del bambino bosniaco che dialoga e gioca con
il suo passato, rigirando tra le mani i cilindri monumento su cui sono scritti
i nomi dei bambini caduti in guerra. Valentina, come racconteresti Sarajevo ad
un bambino?
A quel bambino direi: tienili tra le mani i morti del tuo Paese,
non calpestarli e vai avanti. Mangia cevapcici e kiflice fino a soffocarti, da
grande ricordati di entrare nella Biblioteca Nazionale che è in piedi dopo
vent'anni, di divertirti e visitare il mondo per poi tornare a Sarajevo.
Valentina, lasciaci con un colore, un profumo di quella terra.
Vi lascio con un paio di orecchini a forma di cuore
che Hariz mi ha regalato dicendomi “This is the soul of Srebrenica”, con il
ricordo dei cevapcici affogati nello yogurt che abbiamo mangiato a Tuzla con
amici bosniaci e italiani e quel pranzo al “To be or not to be” di Sarajevo con
il “or not to be” barrato.
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